domenica 29 settembre 2024

Alena Mornštajnová, “Hana” ed. 2024

                                            Voci da mondi diversi. Europa dell'Est

seconda guerra mondiale

Alena Mornštajnová, “Hana”

Ed. Keller, trad. Letizia Kostner, pagg. 304, Euro 18,50

      Un romanzo diviso in tre parti, quello della scrittrice ceca Alena Mornštajnová, “Hana”, con due protagoniste narranti, due diverse voci femminili in due diversi tempi che finiscono per ricongiungersi alla fine.

“Io, Mira. 1954-1963” è la prima parte, seguita da “Quelli prima di me. 1933-1945” e poi da “Io, Hana. 1942-1963”. Apprezziamo questa chiarezza- Mira racconterà della sua famiglia iniziando dall’anno tragico in cui lei rimase sola, a 9 anni. Proseguirà poi ricostruendo gli anni passati e passerà la parola a Hana, sua zia, la figura nera che sembrava un gufo, che veniva ogni tanto in visita a casa loro, si sedeva e non parlava. È Hana che aggiunge le tessere mancanti di questa storia di famiglia nella Storia di quella che era la Cecoslovacchia.

    Tutto incomincia con la disubbidienza di Mira che cade nelle acque gelide del fiume che scorre a Meziřiči, dove abita in una bella casa affacciata sulla piazza e dove suo padre lavora come orologiaio nella bottega a piano terra. Mira viene punita, non mangerà i bigné a pranzo. E sarà la sua salvezza. Moriranno tutti di tifo- madre, padre, la sorella e il fratellino- e l’epidemia si diffonderà in tutta la cittadina (ne sapremo poi l’origine). Un’amica della madre ospiterà Mira, scatenando la gelosia dei figli, finché la zia Hana uscirà dall’ospedale, stranamente sopravvissuta, più che mai gufesca.


    Come può una donna, invecchiata prima del tempo, con chissà quali tremende esperienze alle spalle, prendersi cura di una bambina? Che Hana abbia dietro di sé anni di cui non vuole parlare ci è chiaro quando mostra dei numeri tatuati sul braccio, quando Mira le chiede che cosa significa essere ebrei. La vita va avanti, in qualche modo nasce un’intesa tra la bambina e la zia, un sentimento di timido amore nasce in un cuore che sembra inaridito. E poi Mira si innamora, la casa sulla piazza acquista una nuova vita... Il tempo si riavvolge indietro ed è la storia dei nonni e dei genitori di Mira che leggiamo, una storia simile ad altre che abbiamo letto e ambientate in altri paesi- il rifiuto di credere che Hitler avanzerà nella sua fame di nuove terre, che quello che vivono non sia altro che un periodo passeggero, che, in ogni caso, sia difficile abbandonare quello che si conosce per l’ignoto, finché non è troppo tardi. Sono gli anni in cui Hana è giovane e innamorata, disposta a tutto, a mentire, a nascondere documenti pur di non allontanarsi da un uomo che finisce poi per sposare la sua amica. Ed è troppo tardi. È sua la colpa di quello che succederà?


    Il racconto di Hana è simile eppure diverso da altri che abbiamo letto, perché ogni esperienza è a sé, ogni tragedia ha un’impronta personale, così come la maniera in cui essa viene rielaborata e affrontata. Si può ancora vivere dopo che la propria vita è stata calpestata? Si può amare, si può voler bene dopo aver sperimentato la fine di ogni sentimento umano? E poi sembra proprio che il destino perseguiti Hana, che faccia di lei una colpevole suo malgrado, una volta dopo l’altra, a terminare con i bigné alla crema.

    “Hana”, il romanzo di una famiglia e di un’epoca, con due personaggi femminili che non dimenticheremo, ha vinto il Czech Book Award.



 

 

 

 

giovedì 26 settembre 2024

Kristen Loesch, “La bambola di porcellana” ed. 2024

                             Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

                                                        love story

Kristen Loesch, “La bambola di porcellana”

Ed. Marsilio, trad. Valeria Raimondi, pagg. 387, Euro 19,00

      Un prologo con una favola, In un regno lontano, in una terra dimenticata, viveva una bambina che assomigliava in tutto e per tutto alla sua bambola di porcellana. La favola, anzi, le favole, saranno il leit motiv del romanzo di Kristen Loesch e, se dapprima le leggiamo interpretandole per quello che sono, per quello che raccontano nella tradizionale chiave fantastica, poi iniziamo a sospettare che queste favole, scritte a mano e raccolte in un quaderno che la madre lascia alla protagonista, la figlia Rose, abbiano un significato nascosto, che contengano un messaggio che deve essere decrittato- ma a Oxford non ha studiato proprio per questo, Rose?

Anche la bambola sarà un ‘personaggio’ ricorrente. Bambola si dice Kukolka, in russo. E Aleksej Ivanov, che assume Rose perché lo accompagni a Mosca, vuole rintracciare una donna- la chiamavano Kukolka, perché aveva un viso da bambola.


   Londra 1991. È Rose che racconta del suo primo incontro con il quasi centenario Aleksej Ivanov ad una presentazione in cui leggeva brani tratti dal suo libro di memorie, “L’ultimo bolscevico”. Ivanov era stato prigioniero in un gulag e quel piccolo libro con la copertina rossa narrava del periodo che aveva passato ai lavori forzati per costruire il canale del Mar Bianco: 170.000 i detenuti impiegati, 25.000 i morti, 20 mesi per costruirlo tra il 1931e il 1933, terminato con quattro mesi di anticipo sulla programmazione.


Rose era nata a Mosca e vi aveva passato i primi dieci anni della sua vita. Dopo l’evento traumatizzante in cui sua sorella e suo padre erano stati uccisi, lei e la madre erano fuggite in Inghilterra. Soltanto sua madre la chiama ancora Raisa. Lei ormai si sente inglese, ha studiato a Oxford, ha un fidanzato inglese. E tuttavia qualcosa la chiama al passato, un desiderio di sapere di più su quello che è successo perché non ha mai dimenticato il viso dell’uomo che ha distrutto la sua famiglia. Accetta la proposta di Ivanov e ritorna in Russia.

   Pietrogrado, non ancora Leningrado, non ancora san Pietroburgo, 1915. Antonina, chiamata con il diminutivo di Tonja, è la sposa sedicenne di un uomo più anziano che lei non ama. Lui le ha dato la ricchezza, la splendida casa sulla Fontanka, ma lei si sente come uno degli oggetti della sua collezione. I tempi stanno cambiando, soffiano i venti della rivoluzione, Tonja finirà per innamorarsi di un giovane dagli occhi ardenti, un rivoluzionario, un bolscevico.

la Fontanka

    Le due narrative scorrono parallele, quella di una ricerca duplice- di una donna con il viso da bambola, di un uomo che aveva ucciso due persone e della propria identità da parte di Rose sempre più Raisa- e quella della fanciulla innamorata che attraversa un secolo di Storia in cui la Russia diventa Unione Sovietica per poi tornare ad essere Russia, segnato dalla Rivoluzione, dalle speranze in una grande utopia, dal Terrore e dalle Purghe staliniane, dai gulag, dall’assedio di Leningrado. C’è anche una duplice storia d’amore, perché anche Rose, come Tonja, incontra un altro uomo, anche lei tradisce. E Kukolka? Rose incontra anche Kukolka, riconoscendosi in lei.

    Anche se nel finale, ricco di colpi di scena, troppe delle cose che vengono svelate, troppi dei misteri della trama sono poco credibili, il romanzo è una lettura appassionante che difficilmente si riesce ad interrompere, con echi di ‘Anna Karenina’, di Solzenytsin e qualcosa del ‘Dottor Živago’.



 

   

martedì 24 settembre 2024

Shubnum Khan, “Lo spirito aspetta cent’anni” ed. 2024

                                                 Voci da mondi diversi. Sud Africa

           love story

Shubnum Khan, “Lo spirito aspetta cent’anni”

Ed. Neri Pozza, trad. Simona Fefé, pagg. 320, Euro 19,00

   Akbar Manzil. Una casa nel Natal, provincia costiera del Sudafrica. Ecco un’altra casa che ricorderemo, una casa come Istana, come Howards End, come Tara, come Manderley, come tutte le case protagoniste di romanzi su cui mi piacerebbe tenere un corso di letteratura.

   Un centinaio di anni fa Akbar Manzil era grandiosa, in alto sulla collina da cui dominava la costa, dove tutti potevano vederla. Adesso è il fantasma di quello che era, è una casa infestata dai fantasmi o meglio dai ‘geni’, le entità soprannaturali intermedie fra il mondo angelico e quello umano della cultura araba- da uno spirito, nella fattispecie, che si aggira per le stanze fatiscenti, che si ferma davanti ad una porta chiusa a chiave nell’ala est. Eppure, quando Bilal vi arriva, chiede alla figlia Sana che è con lui se pensa che questa sarà per loro ‘casa’, se alla mamma sarebbe piaciuta. La casa è stata divisa in miniappartamenti abitati da persone che sono andate alla deriva nella loro vita- un responsabile che si fa chiamare Dottore, due donne che litigano tra di loro di continuo, una ex concertista, una domestica che parla da sola.


   Sana è sperduta, tormentata dai ricordi di una madre che non la amava, di una sorella siamese che non era sopravvissuta all’intervento che le aveva separate e che continua ad essere al suo fianco, a parlarle, a stuzzicarla, a provocarla, quasi un altro djinn niente affatto benevolo che la invita a raggiungerla.

   Sana si aggira per la casa, arriva davanti alla porta chiusa, riesce ad entrare, spolvera, la mette in ordine, trova dei diari.

E allora la narrazione prosegue su due piani temporali, le protagoniste diventano due, la ragazzina orfana che si chiede che cosa è l’amore e la giovane donna che scopre che cosa è l’amore, suo malgrado perché proprio non avrebbe voluto sposare Akbar e diventare la sua seconda moglie. Sana e Meena.

    La storia di Meena acquista subito un rilievo maggiore ed è più appassionante di quella di Sana. Inizia con quella di Akbar, uomo di fascino e dalla mente curiosa, che porta la moglie dall’India a vivere in Sudafrica, fa costruire la grande casa, fa arrivare animali esotici per un suo zoo privato e un domatore che si prenda cura di loro. Che cosa ha in comune con la moglie che scimmiotta la moda inglese, vanta la sua ascendenza moghul e non gli presta ascolto quando lui le legge le poesie che ama? Quando Akbar si innamora di Meena, una semplice operaia, né la moglie né la madre di Akbar pensano che possa essere più che un divertimento. E invece…


   Amore e tenerezza che suscitano gelosia folle e crudeltà, sgarbi e aperto disprezzo che contagiano anche i due bambini quando nasce il figlio dell’amore di Akbar e Meena, che portano ad un atto di inaudita malvagità. Non finisce qui, sappiamo fin dall’inizio che se la casa è stata abbandonata, se è in rovina, è perché è stata teatro di qualcosa di tragico.

    Il finale è a sorpresa, perché ricongiunge i due filoni narrativi e alla tragedia del passato ne corrisponde un’altra nel presente.

   Quella di Shubnum Khan è una scrittura lussureggiante, incredibilmente poetica, capace di restituirci colori e suoni, luci e ombre, di rendere credibile- in un personalissimo ‘realismo magico’ molto poetico- la presenza dello spirito malato d’amore che ha taciuto per cento anni e quello di una gemella uscita di scena troppo presto. E poi il suo romanzo è una bellissima e insolita storia d’amore.



domenica 22 settembre 2024

Fabiano Massimi, “Le furie di Venezia” ed. 2024

                                                             Casa Nostra. Qui Italia

cento sfumature di giallo

Fabiano Massimi, “Le furie di Venezia”

Ed. Longanesi, pagg. 400, Euro 18,35

 

    Venezia 1934. Una folla incredibile in piazza san Marco in attesa di applaudire Mussolini e Hitler. Un incontro storico. Tra chi aspetta- e con ben altre intenzione che applaudire- c’è l’ex ispettore Siggi Sauer e il suo collega soprannominato Mutti, una coppia che fa pensare a Stanlio e Ollio, con Sauer più che mai magro e allampanato e quella tremenda somiglianza a Heinrich Heydrich, e Mutti, il bon vivant la cui figura arrotondata rivela la sua passione per il buon cibo. Insieme a loro, nella torre dell’Orologio, l’ungherese Sandor, cecchino infallibile.

    Quello che hanno in mente è chiaro, hanno studiato tutto, con un solo sparo moriranno in due e forse il destino dell’Europa sarà deviato. Qualcosa, però, scombussola il loro piano…

   Il loro, tuttavia, non è stato un viaggio inutile. Mentre seguono il Duce nella laguna, in piena notte, lo vedono approdare all’isola di san Clemente, scendere e inoltrarsi accompagnato da qualcuno in camice bianco. Si ferma un’ora nel grande edificio sull’isola. Con chi si è incontrato? Chi è andato a visitare nell’isola dei matti? Perché l’edificio che sorge sull’isola di san Clemente è l’ospedale psichiatrico femminile, mentre quello maschile è sull’isola di fronte, quella di san Servolo.


    Inizia così l’indagine di Siggi e Mutti. Quando vengono a sapere della donna, Ida Dalser, rinchiusa nel manicomio, e del suo legame con Mussolini, capiscono che, se venisse reso noto in questo momento, causerebbe uno scandalo capace di far cadere il Duce. Sarebbe meglio ancora e con meno rischi che un assassinio.

    Dal 1915 Mussolini era sposato civilmente con Donna Rachele da cui aveva avuto una figlia nel 1910 quando ancora vivevano ‘in concubinato’. Un certificato della chiesa parrocchiale di Sopramonte, però, attesta che Benito Mussolini sposò con rito religioso la trentina Ida Dalser nel 1914. Il loro figlio, Benito Albino, nacque nel novembre del 1915 e il padre lo riconobbe nel gennaio 1916.


    Fabiano Massimi, che in altri due ‘thriller storici’ ha mostrato il suo interesse per ricostruire episodi che si possono considerare marginali della grande Storia del ‘900, ricorre ancora una volta al genere dell’indagine poliziesca per far luce sulla moglie dimenticata del Duce e su quel figlio, primogenito  maschio perché nato prima di Vittorio, che dovevano entrambi scomparire. E la narrazione procede su due tempi, saltando dal 1934 con la sorprendente scoperta, non di una delle tante amanti del Duce, ma di una prima moglie e addirittura di un figlio del tutto legittimo, al 1942, con l’entrata in scena di un nuovo personaggio italiano che si interessa al caso in un disperato tentativo di salvare il giovane Benito che ora porta il nome di Albino Bernardi. Inframmezzata alla narrazione ci sono gli interrogatori di Ida Dalser che racconta la sua storia e ribadisce con fermezza e ostinazione di essere la moglie di Mussolini.

    Sotto la forma del romanzo veniamo a sapere della forte personalità di questa donna, ben diversa dalla ‘contadina’ Rachele, diplomata come estetista a Parigi, proprietaria di un salone di bellezza a Milano. Ida ci racconta dell’incontro con l’uomo che non era ancora il Duce osannato da tutti, che lavorava in un giornale, che lei aveva aiutato economicamente. Era stata messa da parte, poi, nonostante il figlio che avevano avuto, lui non le passava neppure i soldi pattuiti per il mantenimento. Fino a quando era successo il peggio.


   Se nella prima parte del romanzo è Ida Dalser il personaggio principale, nella seconda è Benito Albino, la vittima che più ci fa pena, che diventa il protagonista. La vicenda non è nuova, c’è anche un film del 2009 diretto da Marco Bellocchio, “Vincere”, che la prende in esame, ma l’approccio di Fabiano Massimi che ne fa la trama di un romanzo di indagine in un libro che ruota intorno ad un segreto disdicevole e colpevole, documentato, ricco di azione e con un messaggio implicito eppur chiaro- la lotta contro tutti i totalitarismi- la trasforma in una lettura piacevole e istruttiva.



mercoledì 18 settembre 2024

Julio Manuel de la Rosa, “L’ultima battaglia” ed. 2024

                                           Voci da mondi diversi. Penisola iberica

       seconda guerra mondiale

Julio Manuel de la Rosa, “L’ultima battaglia”

Ed. Scritturapura, trad. Marino Magliani, pagg. 100, Euro 14,25

 

   Ha disertato. Lui, il protagonista narrante che dapprima dice di non ricordare il suo nome, così come non ricorda la sua faccia, poi dice che a volte gli pare di ricordare di chiamarsi Hurbinek o forse Henek, ha abbandonato Stalingrado in macerie, convinto che ormai la battaglia sia persa dopo quasi sette mesi di combattimenti strada per strada, palazzo per palazzo. È un soldato dell’Armata Rossa, anzi è un tiratore scelto, e a un certo punto dice a se stesso che no, forse non è un disertore, scappare da una città che è già morta non è disertare.

    Henek fugge dalla Città Eroica che era diventata un Inferno per arrivare in un altro Inferno, perché- errore imperdonabile- sale su un treno che lo porta a quella che lui chiama la Grande Baracca. E questo è un Inferno inimmaginabile. Lì conosce un italiano, ‘il ragazzo chimico che non poté evitare di aiutare, nel laboratorio, quel dottore di cui tremo a pronunciare il nome’, quello che diventò un famoso scrittore e, anni dopo, si gettò nella tromba delle scale.


E se Henek è il protagonista che ci narra la sua esperienza, al suo fianco c’è sempre l’ombra di Primo Levi di cui ricorda le parole, di un’umana saggezza che aiuta a vivere. Finché si muore perché non si resiste più, perché da Auschwitz non si esce mai, perché anche Henek, come Primo Levi, si è scontrato con l’indifferenza e l’incapacità di capire degli altri, anche della propria famiglia.

   E comunque Henek riesce a scappare dalla Grande Baracca. Il ragazzo italiano lo aveva incoraggiato e ce l’aveva fatta, per ritrovarsi un’altra volta nella steppa sconfinata senza sapere in che direzione andare. C’è un intermezzo in questa fuga, una breve parentesi di vita quasi normale quando il fuggitivo arriva ad un gruppo di capanne disabitate dove una donna gli offre rifugio, lo nutre, lo cura. E’ una sosta che lo rimette in forze, che lo fa sentire quasi come una volta.


    La narrativa è zigzagante come il suo cammino nella steppa. I ricordi si mescolano, dalla Grande Baracca si passa a Stalingrado dove Henek era il discepolo prediletto del maestro istruttore Zaitzev di cui era stato a fianco nel duello contro l’ufficiale tedesco Konings (un duello che ha ispirato il film “Il nemico alle porte” del 2001, diretto da Jean-Jacques Annaud). Quella steppa tutta uguale e senza confine gli dà quasi delle allucinazioni, la linea che separa il sogno e la realtà, il ricordo del passato e il presente, è sottile, Dio ha smesso di esistere in questo mondo in guerra. E la guerra diventa l’unica realtà, quella che lui ha combattuto e quella che sogna e che non è la sua, in un paese caldo dove si parla una lingua musicale. La guerra è la dimensione del mondo.

    Il finale chiude il cerchio- nel suo girare senza meta Henek ritorna alla Grande Baracca, senza neppure rendersene conto. C’è un gran silenzio. Non ci sono più le sentinelle-cani, non abbaiano più nella loro lingua gutturale quelli che lui ha sempre chiamato i soldati-cani. Per mille e una volta lui si ripete che la guerra è finita. Resta la montagna di morti ad accogliere l’esercito sconosciuto che avanza pacificamente con il volto coperto da fazzoletti.


    Julio Manuel de la Rosa ha scritto un libro sulla guerra, un libro veloce che si concentra su due momenti, su due tremende manifestazioni della guerra che ha devastato l’Europa nel ‘900. È come se non restasse altro da dire sulla guerra e sulle conseguenze per chi l’ha vissuta. dopo aver visitato il Grande Baraccone e la Città Eroica. Lo stile è magnetico e il paesaggio spoglio della steppa diventa una grande metafora della condizione umana.



    

domenica 15 settembre 2024

Camille de Peretti, “La sconosciuta del ritratto” ed. 2024

                                                           Voci da mondi diversi. Francia



Camille de Peretti, “La sconosciuta del ritratto”

Ed. e/o, trad. Alberto Bracci Testasecca, pagg. 304, Euro 11,99

     Un volto affascinante in un quadro di Klimt che ha, dietro di sé, una storia intrigante. Un soggetto perfetto per uno scrittore, un’opportunità per ricamarci sopra, per esercitare il suo diritto di immaginare, di inventare, di creare un personaggio. Ed ecco il romanzo “La sconosciuta del ritratto” della scrittrice francese Camille De Peretti, vincitore del prestigioso Prix Maison de la Presse 2024.

    Backfisch (singolare questo vocabolo tedesco che significa sia ‘pesce da friggere’ sia ‘giovane ragazza’), era il titolo del quadro di Klimt, dipinto nel 1910 e poi scomparso. Raffigurava il viso di una femme fatale, girato di tre quarti, con l’incarnato chiarissimo, lo sguardo azzurrino, una sciarpa attorno al collo e un grande cappello nero in testa. Nel 1917 Klimt aveva dipinto lo stesso viso, nella stessa posizione, lo stesso incarnato, gli stessi occhi azzurri ma con i capelli raccolti in uno chignon e il boa intorno al collo era sostituito da uno scialle bianco disseminato di fiori. C’era aria di primavera in questo quadro acquistato dal Museo d’arte moderna Ricci Oddi di Piacenza da cui fu rubato nel 1997. Il quadro riapparve, poi, a distanza di 22 anni, nel 2019- e qui la vicenda si tinge di giallo, diventa un mystery, perché fu ritrovato da un giardiniere, durante dei lavori, dentro un sacco della spazzatura in una rientranza chiusa da una botola (ricordiamo tutti di aver letto la notizia sui giornali ed aver esultato, come sempre accade quando riappare un’opera d’arte). Ma il mystery non si ferma qui. Tra lo sconcerto degli esperti e degli storici dell’arte, fu una studentessa dell’istituto d’arte, Claudia Maga, a scoprire che c’era un altro dipinto sotto il ritratto della donna con lo scialle fiorito, che Klimt aveva rimaneggiato il quadro precedente della ragazza con il cappello nero. Le domande incalzano: perché Klimt lo aveva fatto, lui che non aveva mai messo mano una seconda volta per modificare un suo dipinto? E soprattutto, chi era la misteriosa modella che compariva solo in questo quadro? E Camille De Peretti incomincia a dipingere la sua tela.


    Dal primo decennio del 1900, in Austria, dove la giovane  e bella Martha viene assunta dalla ricca famiglia Brombeere nella elegante casa di Vienna per tenere lontano il rampollo Franz dal frequentare donne di piacere, a New York con l’intraprendente Isidore (che nome singolare, come il poeta francese Lautréamont, pseudonimo di Isidore Ducasse), immigrato senza arte né parte che aveva saputo costruirsi una fortuna e conquistare la ragazza di ottima famiglia di cui si era innamorato a prima vista, e poi a Houston, in Texas, dove vive Pearl dall’incarnato di perla e un viso che è sorprendentemente uguale a quello della sconosciuta del ritratto di Klimt.

    Anche se il finale non ci convince appieno, il romanzo di Camille De Peretti è un affresco affascinante di un tempo scomparso, della vecchia Europa in declino e della nuova America dalle mille possibilità, di fortune alterne, miseria e ricchezza, della Grande Depressione da cui pochi si sono salvati, una saga familiare con segreti mai detti che devono, però, venire alla luce alla fine, una storia di peccati ‘maschili’ al di qua e al di là dell’Atlantico, di legami che si rivelano più forti di quanto si pensasse, perché è vero che il sangue non è acqua.


È un libro appassionante che crea una storia dal nulla, partendo dalla fine e risalendo all’inizio, dando una voce alla donna del ritratto, anzi, alle due donne- quella dallo sguardo fatale con il cappello in testa e quella che sembra più giovane, meno esperta della vita, con l’aria di primavera che le dà lo scialle fiorito.



   

giovedì 12 settembre 2024

Diego Alverà, “Solo. Walter Bonatti dal K2 al Dru” ed. 2024

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia



Diego Alverà, “Solo. Walter Bonatti dal K2 al Dru

Ed. 66thand2nd, pagg. 192, Euro 17,00

 

   1954 e 1955. Due estati, due date, 31 luglio e 21 agosto, due montagne, due bellissimi giganti- 8.611 metri il K2 e 3754 il pinnacolo del Dru, un ago di roccia che perfora il cielo-, due imprese che hanno segnato la vita di Walter Bonatti, giovanissimo all’epoca di queste scalate (era nato a Bergamo nel 1930).

Walter Bonatti aveva affrontato la scalata del Dru, nella parte settentrionale del Monte Bianco, come una sorta di rivincita- su se stesso, prima di tutto- dopo l’esperienza per più di un verso traumatizzante dell’anno prima sul Karakorum. E il libro di Diego Alverà a lui dedicato inizia proprio da quella grande avventura che sarebbe diventata una frustrante avventura in cui Walter aveva sfiorato la morte ma di cui, per impegno preso, non poteva parlare. Bonatti è il protagonista ideale per Alverà il cui intento è raccontare “storie grandi e piccole strappandole all’oblio e restituendole al presente, affinché ci aiutino a riflettere, pensare e comprendere…Narro i percorsi e le traiettorie di chi ha infranto schemi, di chi ha creduto nella sua personale visione violando spesso convinzioni comuni…”. Ecco, Bonatti era proprio così, Bonatti infrangeva gli schemi, credeva nella sua visione, si sentiva ed era fuori posto fra gli altri scalatori. A lui non importava piantare una bandiera su una vetta, una montagna è di tutti, non ha senso rivendicarla, così come non ha senso usare l’espressione ‘conquistare’ una montagna. Per lui scalare era un’esigenza interiore, era un modo per mettersi alla prova, per superare se stesso. Certo, era pieno di orgoglio ed entusiasta quando era stato scelto per l’impresa del K2. Erano gli anni della rinascita dopo la guerra, la fine disastrosa della seconda spedizione di Nobile al Polo Nord con il dirigibile Italia era ancora presente nella memoria di tutti, ci voleva un’impresa per  risollevare il nome dell’Italia macchiato dalle vicende belliche.


    Walter Bonatti, più giovane degli altri partecipanti, con il suo fisico robusto, con quel carattere schietto ed entusiasta, era sottilmente invidiato da tutti. Leggerete nella ricostruzione di Alverà quello che successe vicino alla cima del K2 che sarà raggiunta il 31 luglio da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Qui importa ricordare la notte all’addiaccio, a 50 gradi sotto zero, di Walter e di Amir Mahdi. Quest’ultimo dovette subire degli interventi di amputazione per arti congelati, ma quello che più ferì Bonatti fu la malafede dei due ‘conquistatori’ e del professore Desio che guidava la spedizione. Eppure, con grande dignità, tacque, perché questo era l’impegno preso prima della partenza- ci sarebbero voluti 54 anni perché la verità fosse riconosciuta.

     Quella notte in piedi su un gradino nella roccia aveva insegnato molto a Walter Bonatti. A trovare la forza interiore per indurire il suo corpo, per resistere, e poi, purtroppo (è il caso di dirlo), a fidarsi solo di se stesso.

    L’anno seguente Walter avrebbe affrontato da solo quel monte la cui bellezza toglieva il respiro, il Dru dalle pareti verticali a cui ogni appiglio pareva impossibile.


   Alverà ha la capacità di farci arrampicare con l’alpinista, ci rende partecipe dei momenti di dubbio (mai di paura, Walter è sereno e lucido, altrimenti non potrebbe farcela) quando ogni via di ascesa sembra preclusa, ci fa sentire il fragore del lastrone di roccia che precipita, ci fa stringere i denti quando Walter si ferisce, esultare quando trova il modo per avanzare là dove non si può piantare nessun chiodo, ci fa toccare il cielo con lui.

  Ha qualcosa dell’eroe, Walter Bonatti. Non per quello che ha fatto, non per le cime che ha raggiunto, ma per lo spirito con qui ha compiuto queste imprese, per la lezione di vita che ci ha impartito che si riassume nelle parole rivolte al futuro scrittore che lo conobbe quando era bambino: “Non è poi così importante scalare. La cosa importante è vivere fino in fondo le proprie passioni, qualsiasi esse siano. Perché la montagna più alta e difficile è sempre quella che ci portiamo dentro”.



martedì 10 settembre 2024

Tan Twan Eng, “Il dono della pioggia” ed. 2024

                                                          Voci da mondi diversi. Malesia

seconda guerra mondiale

romanzo di formazione

Tan Twan Eng, “Il dono della pioggia”

Ed. Neri Pozza, trad. Chiara Vatteroni, pagg. 496  , Euro 20,90

 

    Era stata un’indovina a dire a Philip Hutton che lui aveva il dono della pioggia. Che cosa voleva dire nell’isola di Penang, in Malesia, avere il dono della pioggia? I monsoni portavano con regolarità la pioggia e tutta quell’acqua era nello stesso tempo una benedizione e una maledizione. La pioggia portava fertilità del terreno, rendeva lussureggiante la foresta mentre tamburellava sulle foglie iridescenti. Poteva però portare alluvioni e malattie, con le acque di scolo che trascinavano immondizie e animali morti. Nel futuro di Philip c’era anche che avrebbe causato la rovina di entrambe le famiglie a cui apparteneva.

    Philip ha sedici anni nel 1939, quando tutto inizia, quando inizia il racconto della sua vita- e ormai è anziano- ad una donna giapponese che è venuta a cercarlo per portargli una lettera che arriva da un tempo remoto, scritta da Hayata Endo, che la donna aveva amato e che era stato il sensei di Philip, il suo maestro di aikido, l’amico che gli aveva insegnato la cultura giapponese, che forse era stato per lui anche più di un amico, nonostante tutto quello che era successo, nonostante avesse spaccato in due il senso di lealtà di Philip quando i giapponesi avevano occupato la Malesia.


   La voce narrante dominante è quella di Philip, figlio di un inglese la cui famiglia si era stabilita dalla precedente generazione a Penang, arricchendosi con le miniere e la coltivazione della gomma, e di una cinese che aveva sposato giovanissima suo padre, già vedovo, e aveva fatto da madre agli altri tre figli di lui prima di morire di malaria quando lui era piccolo. Ma è la voce di Endo-san che racconta a Philip della sua vita prima di arrivare a Penang, pur non dicendogli tutto, è la donna giapponese a raccontare la sua, di vita, (sta morendo lentamente adesso, vittima delle conseguenze della bomba di Hiroshima), è il nonno cinese che aveva troncato ogni rapporto con la figlia che aveva sposato uno straniero a dirci di sé. Un romanzo ricchissimo, dunque, di voci, di storie, di testimonianze. Un romanzo la cui trama potrebbe essere quella di una tragedia con il protagonista che, proprio perché si sente un estraneo nella sua famiglia, proprio perché si sente ugualmente escluso dalla comunità cinese, proprio perché si sente un alieno quando coglie gli sguardi perplessi di chi non sa quale appartenenza attribuirgli, si sente così attratto dal giapponese che ha preso in affitto l’isola da suo padre e gli chiede in prestito una barca per raggiungerla. Philip deve molto a Endo-san- la disciplina dell’arte marziale che gli insegna a padroneggiare è mentale oltre che fisica, rende Philip sicuro di sé, lo trasforma in una maniera sottile che lo rende un ragazzo del tutto diverso. E però Philip non si accorge che il suo amato Endo-san ha anche un altro scopo nel coltivare la sua amicizia, che non sono solo le bellezze di Penang di cui è in cerca, durante le loro escursioni. A nulla valgono le parole del padre che lo mettono in guardia, anzi, forse ottengono l’effetto contrario. E, quando scoprirà il tradimento di Endo-san, il dolore e la delusione saranno atroci.


    I giapponesi occupano la Malesia nel 1941. Nessuno se lo aspettava. Lo stupro di Nanchino ha mostrato l’efferatezza giapponese, non saranno da meno in Malesia. E infatti…Philip Hutton si trova a dover prendere delle decisioni, con chi schierarsi per salvare la sua famiglia. Di lui diranno che è un traditore, finirà per essere un traditore di ambo le parti, lui che è stato tradito per primo.


   “Il dono della pioggia” non è un libro facile, non è un libro per tutti. È un libro bellissimo che non lascia indifferenti. È un capitolo della storia del secolo XX che ci porta sul palcoscenico della guerra in estremo Oriente, è un romanzo di formazione singolare con dure prove da sostenere per il ragazzo che diventa uomo in anni difficili in cui scegliere può significare la morte di qualcuno, un romanzo sulla ricerca di identità, sulla lealtà e sul tradimento, su legami tra fratelli e tra padre e figli (bellissima la figura di Noel Hutton, l’uomo la cui integrità morale merita il rispetto di malesi, cinesi e della sua stessa famiglia), sul fascino che sconfina nel plagio dell’insegnante di valore. Questo è un romanzo complesso e pieno di sfumature a cui continueremo a pensare a lungo dopo averlo terminato. Così come continueremo a pensare alla casa con le bianche colonne degli Hutton- Istana, un nome che significa ‘palazzo’-, una delle tante case con un’anima dei romanzi di lingua inglese, simbolo di uno splendore e di un tempo destinato a scomparire.



 

 

venerdì 6 settembre 2024

Petros Markaris, “La violenza dei vinti” ed. 2024

                                                  Voci da mondi diversi. Grecia

cento sfumature di giallo

Petros Markaris, “La violenza dei vinti”

Ed. La Nave di Teseo, trad. A. Di Gregorio, pagg. 304, Euro 19,00

 

    Ad Atene sembra essere tornati al 1973 quando, a seguito della protesta degli studenti universitari contro la Giunta Militare, il 17 novembre un carro armato si schiantò contro i cancelli del Politecnico. Lo scontro degli studenti di adesso è fra i due rami di studio- quello delle materie tecnico scientifiche e quello delle materie umanistiche. L’economia della Grecia si sta risollevando, aziende straniere portano capitali e intendono investire in attività locali, il pensiero corrente è- a che cosa serve lo studio della filosofia, della storia, della letteratura in questo nuovo mondo che richiede altre competenze? Servono laureati in economia, in informatica, in matematica, nelle discipline scientifiche. A chi sostiene questa tesi è difficile far capire non solo l’arricchimento ma anche la capacità di riflessione, di approfondimento, di comprensione che gli studi umanistici possono dare.


    Il commissario Kosta Charitos e il suo aiuto, il sostituto vicecommissario Antigone, si trovano a dover risolvere un caso difficile. Un professore universitario di Matematica viene ucciso nel suo ufficio proprio durante la manifestazione studentesca- era altezzoso e scostante, erano in tanti ad odiarlo, era difficile che acconsentisse a fare da relatore per una tesi. Dopo di lui è la volta del segretario del Ministro dell’ Istruzione, incaricato di elaborare la proposta di una riforma dei programmi dei licei volta a ridurre drasticamente le ore delle materie umanistiche a favore di quelle scientifiche. Una morte ingiusta e inutile. Gli assassini non sapevano che il segretario aveva dovuto accettare un incarico che non voleva, per fare qualcosa che era contro quello in cui credeva. I morti non finiscono qui, ma- hanno tutti la stessa matrice questi assassinii? Parrebbe di no, quando sono gli interessi delle aziende ad essere toccati…


    Il titolo di questo romanzo potrebbe essere “Delitto in Università” e invece allude a una seconda traccia della trama- il bullismo e le sue conseguenze, un tema che faceva da sfondo anche ad un ‘giallo’ italiano letto di recente, di Cocco e Magella. Questo tema, così come quello principale- la querelle tra studi scientifici e studi umanistici- e l’altro ancora- l’ingerenza dei genitori nella scuola (sempre in difesa dei figli), sono l’attrattiva di un romanzo la cui trama è peraltro piuttosto debole, rallentata da dialoghi piatti e da intermezzi  che vedono Kosta in famiglia, a gustare le prelibatezze cucinate dalla moglie Adriana e a godere le prodezze del nipotino che ha scoperto il piacere di usare matita e colori, oppure nel centro di accoglienza. Perfino la consultazione del dizionario da parte di Kosta ci ha stancato un poco, è più interessante, quindi, constatare come il cambiamento dei tempi, lo spazio sempre maggiore occupato dalla tecnologia, la sostituzione del libro come occupazione del tempo libero con il cellulare e dell’enciclopedia con Wikipedia, la svalutazione degli insegnanti a cui è stata sottratta ogni autorità, siano problemi che affliggono non solo l’Italia. Problemi che non hanno soluzione, la ruota del tempo non torna indietro.