Voci da mondi diversi. Penisola iberica
seconda guerra mondiale
Julio Manuel de la Rosa, “L’ultima battaglia”
Ed.
Scritturapura, trad. Marino Magliani, pagg. 100, Euro 14,25
Ha disertato. Lui, il protagonista narrante
che dapprima dice di non ricordare il suo nome, così come non ricorda la sua
faccia, poi dice che a volte gli pare di ricordare di chiamarsi Hurbinek o
forse Henek, ha abbandonato Stalingrado in macerie, convinto che ormai la
battaglia sia persa dopo quasi sette mesi di combattimenti strada per strada,
palazzo per palazzo. È un soldato dell’Armata Rossa, anzi è un tiratore scelto,
e a un certo punto dice a se stesso che no, forse non è un disertore, scappare
da una città che è già morta non è disertare.
Henek fugge dalla Città Eroica che era diventata un Inferno per arrivare in un altro Inferno, perché- errore imperdonabile- sale su un treno che lo porta a quella che lui chiama la Grande Baracca. E questo è un Inferno inimmaginabile. Lì conosce un italiano, ‘il ragazzo chimico che non poté evitare di aiutare, nel laboratorio, quel dottore di cui tremo a pronunciare il nome’, quello che diventò un famoso scrittore e, anni dopo, si gettò nella tromba delle scale.
E se Henek è il protagonista che ci narra la sua esperienza, al suo fianco c’è sempre l’ombra di Primo Levi di cui ricorda le parole, di un’umana saggezza che aiuta a vivere. Finché si muore perché non si resiste più, perché da Auschwitz non si esce mai, perché anche Henek, come Primo Levi, si è scontrato con l’indifferenza e l’incapacità di capire degli altri, anche della propria famiglia.
E comunque Henek riesce a scappare dalla Grande Baracca. Il ragazzo italiano lo aveva incoraggiato e ce l’aveva fatta, per ritrovarsi un’altra volta nella steppa sconfinata senza sapere in che direzione andare. C’è un intermezzo in questa fuga, una breve parentesi di vita quasi normale quando il fuggitivo arriva ad un gruppo di capanne disabitate dove una donna gli offre rifugio, lo nutre, lo cura. E’ una sosta che lo rimette in forze, che lo fa sentire quasi come una volta.
La narrativa è zigzagante come il suo cammino
nella steppa. I ricordi si mescolano, dalla Grande Baracca si passa a
Stalingrado dove Henek era il discepolo prediletto del maestro istruttore
Zaitzev di cui era stato a fianco nel duello contro l’ufficiale tedesco Konings
(un duello che ha ispirato il film “Il nemico alle porte” del 2001, diretto da
Jean-Jacques Annaud). Quella steppa tutta uguale e senza confine gli dà quasi
delle allucinazioni, la linea che separa il sogno e la realtà, il ricordo del
passato e il presente, è sottile, Dio ha smesso di esistere in questo mondo in
guerra. E la guerra diventa l’unica realtà, quella che lui ha combattuto e
quella che sogna e che non è la sua, in un paese caldo dove si parla una lingua
musicale. La guerra è la dimensione del mondo.
Il finale chiude il cerchio- nel suo girare senza meta Henek ritorna alla Grande Baracca, senza neppure rendersene conto. C’è un gran silenzio. Non ci sono più le sentinelle-cani, non abbaiano più nella loro lingua gutturale quelli che lui ha sempre chiamato i soldati-cani. Per mille e una volta lui si ripete che la guerra è finita. Resta la montagna di morti ad accogliere l’esercito sconosciuto che avanza pacificamente con il volto coperto da fazzoletti.
Julio Manuel de la Rosa ha scritto un libro
sulla guerra, un libro veloce che si concentra su due momenti, su due tremende
manifestazioni della guerra che ha devastato l’Europa nel ‘900. È come se non
restasse altro da dire sulla guerra e sulle conseguenze per chi l’ha vissuta. dopo
aver visitato il Grande Baraccone e la Città Eroica. Lo stile è magnetico e il
paesaggio spoglio della steppa diventa una grande metafora della condizione
umana.
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