il libro ritrovato (2013)
cento sfumature di giallo
seconda guerra mondiale
Ben Pastor, “Il cielo di stagno”
Ed. Sellerio, trad. Luigi Sanvito
Titolo originale: Tin Sky
Chissà quante mosche affollavano
la testa mozzata del mio bisnonno scozzese a Khartoum. E’ così che la pulizia
diventa per taluni di noi un’ossessione, mentre altri si arrendono e convivono
con gli insetti. Da una grande altezza probabilmente sembriamo mosche anche
noi, sul corpo sconfinato della Russia. Dio solo sa con quanta forza questo
corpo sta cercando di schiacciarci. Del resto ne so qualcosa anch’io: ero una
delle mosche tedesche intrappolate nella carta moschicida di Stalingrado, e
fuggita da lì per puro miracolo. Dicono che abbiano diecimila occhi, occhi
compositi che creano una frammentaria ma immensa visione d’insieme. Non vedono
allora la mano che si abbassa per schiacciarle? E quando centinaia, migliaia di
mosche vengono schiacciate ovunque, perché continuano a girare?
Maggio 1943. Un cielo di
stagno e il costante ronzio di nugoli di mosche. Ucraina, un luogo in provincia
di Kharkov dove sono stazionate le forze tedesche. E niente può essere più
adatto dell’immagine dello stagno per quel cielo piatto che pesa sui soldati in
un paese dove dal 1939 la guerra fa risuonare il fragore metallico delle armi e
il cui dittatore ha cambiato il suo cognome georgiano Dzhughashvili in Stalin, coniandolo sulla
parola russa che significa ‘acciaio’. Quanto alle mosche- non possiamo
sbarazzarcene alla leggera, pensando, ‘fa caldo, è quasi estate, dappertutto ci
sono mosche in questa stagione’. Quando più avanti, nel romanzo “Il cielo di
stagno” di Ben Pastor, Martin Bora trova nella foresta una testa infilzata su
un picchetto e circondata da sciami di mosche, l’orrore e il riferimento al
diavolo come ‘Signore delle mosche’ (e ricordiamo un’immagine simile nel
romanzo con questo titolo del premio Nobel William Golding) ci aiutano a capire
il significato della loro noiosa presenza. “Quando sarà finita, il suolo russo
sarà fertilizzato da frammenti di carne tedesca. Ne abbiamo ammazzato a
milioni, ne hanno ammazzato a milioni. E saremo tutti concime per i campi là
fuori.”, pensa Martin, il mitico protagonista della serie di romanzi di Ben
Pastor. Che, con l’immagine ricorrente delle mosche, amplia incredibilmente la
dimensione di un romanzo che non può essere definito semplicemente ‘di genere’.
Perché la trama- scoprire chi abbia tolto di mezzo i due generali russi che
Martin Bora dovrebbe riuscire a far parlare- è, ancora una volta, un pretesto,
soltanto un frammento di quello che la scrittrice vuole dirci attraverso il suo
personaggio di ufficiale della Wehrmacht che non è nazista, rivivendo a tappe, in ogni romanzo, la storia
d’Europa nella metà del secolo XX. Babi Yar. Memoriale
Le mosche, dunque, ci svelano i morti nella
carneficina delle battaglie ma anche i corpi ammassati nelle fosse comuni- il
burrone di Babi Yar con i 35.000 ebrei uccisi non dista molto da Kharkov, le
fosse di Katyn sono più lontane ma molti polacchi annoverati tra i morti di
Katyn furono ammazzati proprio a Kharkov. D’altronde, guardando dall’altra
parte della lente del cannocchiale, “siamo tutti escrementi di mosche sulla
mappa della Storia ma ci crediamo indispensabili”, riflette Martin.
“Il cielo di stagno” è uno dei libri
cruciali tra quelli della serie con Martin Bora. Cruciale e splendido, tanto
quanto “Kaputt mundi”. Forse perché entrambi i libri si avvicinano in maniera
più spettacolare alla tragedia (le mosche di cui ho tanto parlato non sono
forse come le Erinni di Eschilo o le mosche del rimorso nel dramma scritto da
Sartre durante l’occupazione nazista?) e il protagonista ne esce profondamente
segnato. Martin trentenne non ha più nulla del giovane che avanzava baldanzoso
sul campo di guerra di Spagna nel 1937 ne “La canzone del cavaliere”. Un primo
cambiamento si era già notato in “Lumen”, dove lo incontravamo a Cracovia nel
1939, impietrito nel riconoscere il suo maestro di musica Weiss tra gli ebrei
al lavoro forzato su una strada. Il miglior maestro di musica d’Europa, ci
viene detto ne “Il cielo di stagno” insieme al fatto che Martin barattò la sua
vita con un pianoforte- il primo dei salvataggi da lui operati. Nel romanzo
appena pubblicato Martin salva delle donne ucraine dall’impiccagione
reclamandole come mano d’opera a lui necessaria, domandandosi che ruolo stia
recitando davanti a Dio, salvando ‘quelle’ e condannando a morte le altre. Ci
fa pensare a Schindler e ai Giusti tra le nazioni.Kharkov
Nel maggio 1943 a Merefa, nei pressi di Kharkov, Martin Bora soffre ancora dei postumi della polmonite tifoidea presa a Stalingrado. Ecco, Stalingrado, il punto di non ritorno, l’esperienza che ha cambiato radicalmente Martin e che gli fa dire, replicando all’amico che chiede come si possa ritornare in famiglia dopo aver fatto e visto fare le azioni più abominevoli, “nessuno di noi ‘tornerà’ davvero. A casa andrà qualcuno di nuovo e differente, nel migliore dei casi.” Martin non riesce ancora a parlare di Stalingrado, o a pensarci, ed è come se la scrittrice stessa si ritraesse da questa prova regalandoci un pezzo di vita del nostro eroe dopo Stalingrado, impegnato ad interrogare il generale Platonov (precipitato con il suo aereo e preso prigioniero) e l’imponente e arrogante generale Tibyetskji che defeziona, arrivando sul T34, il gioiello dei carri armati russi. Moriranno entrambi prima di rivelare alcunché. E’ una coincidenza che il tutto avvenga nelle prossimità di un altro burrone, Krasny Yar, reputato stregato dalla gente del posto?
“Il cielo di stagno” è un libro che parla di guerra tra popoli ma anche di guerra interiore perché l’anima umana che è dentro di noi non soccomba in un abbrutimento bestiale, parla dell’onta del tradimento e ancora della guerra interna per non scegliere la via del tradimento politico e però nello stesso tempo non tradire i propri principi, parla dell’ideale della perfezione, in senso sia etico sia estetico, e di come perdere un poco di perfezione possa aprire la via della saggezza. Martin pensa a se stesso e alla moglie, a come loro due fossero, fisicamente, l’immagine della splendente perfezione fisica ariana e, nella tristezza che lo coglie facendo a pezzi una foto di Dikta, ravvisiamo una premonizione della caduta dalla perfezione, di quanto noi lettori sappiamo, come avessimo una sfera di cristallo, perché abbiamo già letto “Luna bugiarda” dove Martin perderà una mano in un attentato dei partigiani in Italia, come il personaggio storico di Claus von Stauffenberg a cui la scrittrice si è ispirata per ‘creare’ Martin.
Martin Bora occupa ogni spazio della nostra mente, mentre leggiamo di lui, come avviene sempre quando la bravura di chi ne scrive rende vivo un personaggio. Così vivo che pensiamo che quest’anno, l’11 di novembre, giorno di san Martino, il nostro eroe compirà 100 anni: e se, adattando in tedesco il famoso Bloomsday, lo festeggiassimo con un Borastag?
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