Voci da mondi diversi. Corea
Hwang Sŏk-yŏng, “L’infinito mare dei vent’anni”
Ed. ObarraO, trad. A. De Benedittis, pagg. 225, Euro
18,00
E poi arrivò l’inverno, e fu allora che
venne deliberata la mia partenza per il Vietnam.
Inizia così il romanzo autobiografico di
Hwang Sŏk-yŏng, uno dei più grandi scrittori coreani viventi. Di lui avevamo
già letto “L’ospite” (libro bellissimo) e qui ritroviamo un grande Sŏk-yŏng in
quello che è il suo romanzo di
formazione, bloccato da quelle due parole, l’inverno
che già di per sé fa rabbrividire e il
Vietnam che- lo sappiamo tutti- significa guerra e morte, una partenza
probabilmente senza ritorno.
Ed è così che, nei brevi due giorni di congedo prima di presentarsi, Chun (alter ego dello scrittore) ritorna a casa e poi si abbandona ai ricordi della sua breve vita fino a quel momento, con una tecnica narrativa che cancella le sfumature del passato e fa sembrare tutto come vissuto nel presente. Perché non è solo Chun a raccontare, intervengono i suoi amici, alternandosi, di modo che non solo cambia il punto di vista, non solo vediamo Chun attraverso gli occhi degli amici, ma anche acquistiamo una visione più ampia degli adolescenti in una Corea che è uscita da poco da una guerra che aveva definitivamente sancito la divisione della loro patria e che ora si appresta ad entrare in un’altra guerra che neppure capiscono. “non vi pare che i Vietcong somiglino tanto a quelli che in Corea combattevano per l’indipendenza?”. E’ tutta questione del messaggio che viene comunicato: ‘ci vogliono far credere che andiamo ad annientare i gruppi di comunisti per difendere la libertà.” Non lo sanno ancora, ma quella guerra sarebbe stata la fine della loro giovinezza, in un bagno di morte.
“Io non so chi sono”, esordisce Chun in un
capitolo. Perché la realtà è che i suoi genitori sono ormai poveri e tuttavia
serbano l’orgoglio di quello che erano- avevano studiato al tempo della
colonizzazione giapponese, non avevano mai lavorato come braccianti o operai,
ambivano ad una educazione scolastica anche per il figlio. A Chun, invece, non
piace la mentalità borghese dei genitori, nonostante abbia vinto due premi
letterari abbandona la scuola, si dedica all’arrampicata con uno degli amici,
per un certo periodo vive in isolamento sulla montagna, poi decide che vuole
vedere la Corea e il romanzo diventa una sorta di on-the-road coreano con avventure, incontri, amicizie intense e
passeggere, prime esperienze d’amore e di sesso.
“Quanto è difficile vivere!”, dice Chun,
una volta ritornato a casa. Il ragazzo che confessava di non sapere chi era, si
sente in bilico tra ‘l’obbligo di far fronte alla nostra quotidianità e il
desiderio di prenderne le distanze’.
È anche per sottrarsi alla banalità della sua vita che Chun partecipa ad una manifestazione e finisce in prigione. È una esperienza importante che gli fa conoscere un compagno di cella, ‘il Capitano’, che gli sarà d’esempio: il Capitano non ha paura della vita e neppure ne soffre. Dapprima lo porta con sé su un peschereccio di calamari e poi in un cantiere.
L’inquietudine che porta Chun da una parte
all’altra, sempre in cerca di qualcosa di diverso, lo farà approdare in un
monastero: è questo che vuole veramente? O è meglio farla finita con tutto?
Il convoglio che lo trasporta lontano con
gli altri soldati segna la fine della giovinezza. “Aveva ragione il Capitano:
la vita va vissuta giorno per giorno.”
E
il buio che inghiotte il treno non è solo quello della galleria. È il buio
dell’ignoto e del futuro. Il frastuono delle ruote anticipa quello degli spari
e dei cannoni.
C’è l’irruenza e la voglia di vivere dei
vent’anni, nel romanzo di Hwang Sŏk-yŏng, temprate, però, da un filo di
malinconia per l’incertezza del futuro che va al di là della usuale incertezza
dei giovani del mondo occidentale, perché qui è di vita o di morte che si
tratta. E la malinconia, che ammanta anche il paesaggio, si riveste di poesia.