Voci da mondi diversi. Russia
la Storia nel romanzo
il libro dimenticato
Victor Serge, “Il caso Tulaev”
Ed. Fazi, trad. Robin Benatti, pagg.
417, Euro 17,50
Lo scrittore Victor Serge non è veramente russo. Ovvero lo è, in
quanto figlio di genitori russi fuggiti dalla Russia nel 1880 perché oppositori
del regime zarista, ma nacque a Bruxelles nel 1890 e conobbe la sua terra
d’origine solo all’età di ventotto anni. E- come lui stesso ci avverte- la verità creata dal romanziere non dovrà essere in alcun modo confusa
con quella dello storico e del cronista: “Il caso Tulaev” è perciò pura
invenzione letteraria. Come mai, allora, ci sembra così reale, molto più di
altri romanzi a cui può essere paragonato, “1984” o “Buio a mezzogiorno”? forse
perché non ha un protagonista principale. Se c’è un eroe, ne “Il caso Tulaev”,
è l’assassino del suddetto Tulaev, che appare solo nel primo e nell’ultimo
capitolo.
Il libro inizia con due acquisti diversi- per aspetto e per significato
intrinseco- in una triste Mosca del 1938 dove, al Gran Mercato, si trova merce
di ogni tipo, per lo più molto scadente, uscita dai fondi di qualche cassetto e
messa in vendita da disperati. Il giovane Kostia, operaio in un cantiere della
metropolitana, compera (con gli ultimi soldi che ha in tasca) un quadretto che
ritrae un volto dolcissimo di donna che lo incanta, mentre Romachkin, vicecapo
dell’ufficio salari del Trust delle Confezioni di Mosca, un ometto grigio che
meglio di ogni altro conosce la falsità dei presunti aumenti di salari, che ha
la fissazione dei numeri (come si fa far combaciare quelli della propaganda e
quelli della realtà?), compera una pistola. La bellezza da una parte, la morte
dall’altra.
Seguono due azioni, anche queste una l’opposto dell’altra, entrambe
soggette al caso. Passeggiando lungo il muro del Cremlino, Romachkin incontra per caso l’uomo con i baffi che sbucava
dalle fotografie sui giornali, sulle gigantografie attaccate ai palazzi di
quattro piani. Romachkin si trova a due metri da lui. Potrebbe ucciderlo. Non
lo fa e, tornato a casa, regala la pistola al suo vicino di stanza, Kostia.
Che, camminando in una strada stretta, una sera di neve, sente il rumore di
un’auto che accosta, sente l’autista salutare l’uomo che ne è sceso chiamandolo
per nome, ‘compagno Tulaev’. Tulaev, quello delle deportazioni di massa, quello
delle purghe nelle università. E Kostia spara.
Succede quello che tutti sanno che sarebbe successo. Qualcuno deve
essere punito. Non importa chi, deve essere una punizione esemplare e si
scelgono cinque capri espiatori di estrazione diversa- un intellettuale, un
alto commissario di polizia, un contadino-soldato, un vecchio bolscevico e un
troskista. Arrestati, fatti confessare loro malgrado quello che non hanno
fatto. “Vedete compagni, se il partito lo vuole, non domando di meglio che
assumermi la responsabilità di tutto”, dice uno di loro, uno fedele fino in
fondo, convinto fino in fondo che “il comitato centrale avesse sempre ragione,
che l’ufficio politico avesse sempre ragione, che il capo avesse sempre
ragione”. E se, da una parte, uno dei cinque confessa di odiare l’Occidente, di
detestare il mondo in cui vive e però di amarlo più ancora di quanto lo
detesti, un altro, ben consapevole della realtà in cui vivono, si chiede invece
quanti fucilati ci vorranno ancora per alimentare la terra russa e poi- “chi
fucilerà i giudici se sono stati ingiusti?”.
La risposta, cinica, terribile, inevitabile, viene alla fine, dopo che
non-giustizia è stata fatta, dopo che abbiamo seguito le storie di tutti i
personaggi da un angolo all’altro della Russia attraverso carestie e arresti e
deportazioni e scomparse e morti. La lettera di Kostia che si autoaccusa viene
letta e bruciata, “Il processo Tulaev è chiuso”, dice il procuratore. “Moriamo
tutti, senza sapere perché abbiamo ucciso tanti uomini”.
Un romanzo corale di grande potenza. La perfetta ricostruzione di un
clima di menzogna, di terrore e, nello stesso tempo, di fede invincibile in
un’idea.
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