mercoledì 29 aprile 2020

Maj Sjöwall 1935-2020


                                                             in memoria
     

    Aprile è il mese più crudele, scriveva T.S.Eliot. Sono tutti i primi mesi di questo anno 2020 ad essere crudeli, a farci contare il numero dei morti, per la pandemia e non solo. A pochi giorni di distanza dalla scomparsa di Per Olov Enquist, un altro lutto nel mondo della cultura svedese. È morta la grande signora del giallo svedese, Maj Sjöwall, famosa per aver creato, insieme al compagno Per Wahlöö, il personaggio Martin Beck, commissario della omicidi di Stoccolma: Riposi In Pace.
     La incontrai al Festival della Letteratura di Mantova, nel 2008. Presentavo un altro grande protagonista svedese della letteratura di genere poliziesco, Leif Persson, e Maj Sjöwall era salita sul palco accanto a noi per prendere parte alla chiacchierata sul fenomeno del ‘giallo Svezia’.

Le recensioni dei suoi libri sono nel blog, sotto le etichette ‘vento del Nord’ e ‘cento sfumature di giallo’, anno 2016.



Per Olov Enquist, Un’altra vita- Intervista 2010


                                            vento del Nord
                                           autobiografia

Per Olov Enquist, Un’altra vita

Ed. Iperborea, trad. Katia De Marco, pagg. 533, Euro 19,50


     C’è una domanda assillante che ricorre lungo tutto il libro Un’altra vita di Per Olov Enquist. Una domanda senza risposta, anche se forse è proprio per cercare questa risposta che lo scrittore fa una lunga pausa- per guardare indietro alla sua vita: ‘Se tutto era cominciato così bene, com’era potuto finire così male?’. Per Olov (che poi gli amici chiameranno P.O.) era stato un bambino bravissimo, gioia e consolazione della madre, un’insegnante rimasta vedova quando il figlio aveva solo sei mesi. Bravo in quanto buono, bravo in quanto intelligente e studioso. Era arrivato al punto di inventarsi un peccato da confessare il sabato, quando la mamma lo obbligava ad un esame di coscienza settimanale.
   C’è un grande musicista che viene spesso nominato, in tutto il libro. Una figura da non imitare, anche se la musica da lui composta è bellissima. La madre aveva regalato a Per Olov un grammofono e tre dischi, quando lui aveva quattordici anni. Uno dei dischi era Finlandia di Sibelius. Sibelius non era mai riuscito a scrivere l’Ottava sinfonia: per quarant’anni aveva promesso che l’avrebbe presto terminata, che mancavano poche note. Quarant’anni di ubriachezza ininterrotta, senza aver realizzato il grande obiettivo della sua vita. Se ci si mette a bere, è la fine: è questa la lezione della madre di Per Olov. Per Olov Enquist ci arriverà vicino- a distruggersi con il bere. Ancora oggi si chiede come sia potuto sopravvivere, come abbia ricevuto in regalo un’altra vita.
Sibelius
    Enquist racconta di sé in terza persona, descrivendosi dall’esterno, come per avere una prospettiva migliore. E questo allontanamento da sé gli riesce facile in tutta la prima parte- quella che copre il numero maggiore di anni- del libro. La severa educazione religiosa, gli studi, la storia di famiglia (il nonno aveva fatto un solo viaggio nella sua vita, in treno fino a Stoccolma per esibire la sua volpe dallo splendido pelo), i colloqui di un bambino solo con il padre morto (lo chiama ‘il Benefattore’ e pensa sia suo compito raccontargli di un mondo che lui non può più sperimentare), il grosso salto per frequentare l’università a Upssala, le amicizie, lo sport (che sarà sempre importantissimo per lui, una sfida personale a superare sempre se stesso), l’amore, il primo matrimonio e la nascita del figlio, il secondo grande amore della sua vita per la donna che gli resterà accanto fino alla fine degli anni bui. E la sua vocazione letteraria, naturalmente- i primi scritti, le opere teatrali, la faticosa ricerca per il libro I legionari, sui 146 legionari baltici arruolati nelle Waffen-SS, internati in Svezia ed estradati nel 1946.
Università di Upssala
Per qualcuno che, come Enquist, è nato nel 1934, ha un notevole intelletto e una acuta consapevolezza del tempo in cui vive, la storia personale passa attraverso la Storia- e non solo quella europea. Così Enquist registra l’impatto fortissimo della guerra in Vietnam prima, del Muro di Berlino poi. Seguiranno altri eventi che lo segnano profondamente, come hanno segnato l’Europa, o l’America: la banda Baader-Meinhof, il primo gravissimo attentato terrorista contro gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972, il movimento pacifista e quello contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti.
    Quando, perché inizia a bere? Quando perde il controllo dei bicchieri, delle bottiglie bevute? Il distacco tra voce narrante e narrazione si assottiglia quando Enquist inizia a parlare della sua discesa all’inferno. Pare quasi che faccia uno sforzo enorme a ricordare quello che ha vissuto con una mente annebbiata dall’alcol, e che il ricordo sia molto doloroso. Per la coscienza dello spreco di anni, per la comprensione del dolore che ha arrecato ad altri. E tuttavia è d’obbligo per lui non celare nulla dell’abiezione in cui è caduto, solo scendendo lucidamente al fondo potrà risalire a rivedere la luce. Che significa poter nuovamente scrivere, e la scrittura è la salvezza.
  Un’autobiografia è una confessione- a se stesso, prima ancora che agli altri-,è un tirare le somme quando ci si accorge che la clessidra del tempo si sta svuotando, si vuole contare ogni granello di sabbia che è già passato attraverso la strozzatura. E’ importante per avere un senso pieno del vissuto. Accade allora che molti dettagli siano superflui per un lettore, che ci siano delle lungaggini che appesantiscono il testo. E tuttavia la lettura di Un’altra vita è talmente coinvolgente che ne usciamo segnati, contagiati dall’onestà, dal coraggio (perché ci vuole coraggio per rivelarsi), dalla lucidità dello scrittore svedese che, alla fine, immaginando che la sua maestra d’asilo gli chieda di che cosa parli il suo libro, risponde: ‘Della resurrezione’.
    Stilos ha incontrato il grande scrittore svedese.
al Salone del Libro di Torino nel 2010
 Intervista a Per Olov Enquist

Scrivere un’autobiografia: in uno dei suoi primi romanzi, L’occhio di cristallo, il protagonista era una donna e Lei stesso ha detto che sarebbe stato troppo rivelatore mettere nel romanzo un giovane padre, come Lei era al tempo. Non importa più rivelarsi ad una certa età?
      Ho scritto quel romanzo nel 1961 e non l’ho mai più letto- cinquanta anni fa. So che la protagonista era una donna, ma non ricordo una riga di quel romanzo. Ricordo che non sapevo come scrivere e che non osavo scrivere di un protagonista maschile, come sarebbe stato ovvio. E’ curioso: che cosa ho detto di quella donna? Forse nascondevo una certa autobiografia in quel testo? In un altro libro ho scritto di un padre e di un figlio…Ora sono più vecchio e posso guardarmi indietro. Avevo una storia da dire, una storia non bella che finisce nel 1990, quando sono uscito dal mio problema. Dopo di allora, per diciassette anni ho pensato che non ne avrei mai scritto. Invece, poi, è stato facile e divertente: ho scritto della mia giovinezza, della mia carriera- se si può parlare di carriera per uno scrittore-, dei viaggi e infine di quei quindici anni del tutto persi.

Per chi si scrive un’autobiografia? Per gli altri o per se stesso?
     Ad essere onesto, l’ho scritta per me stesso. Mi alzavo alle sei e, all’idea di mettermi a scrivere,  pensavo, ‘che giornata splendida!’. Non pensavo alle critiche, non pensavo ai lettori- ma non penso mai ad un lettore, anche quando scrivevo per il teatro non pensavo mai al pubblico. Questo non significa che sottovaluto il lettore. Il fatto è che, quando scrivo, devo prima di tutto dire quello che sento dentro.

E non c’è forse, come accennava prima, una traccia autobiografica in tutti i suoi libri?
   
Sì. Cinque anni fa avrei detto di no e invece persino ne I Legionari, che è un romanzo politico, si possono trovare molte cose autobiografiche. Anche ne La biblioteca del Capitano Nemo, che giudico il mio miglior libro, mi muovo intorno, cerco di venire a parlare di me e poi sfuggo. Questo libro, Un’altra vita, è più diretto, naturalmente.

Si parla molto di sport nel libro: qual è il punto di contatto tra sport e letteratura?
     Sono stato attivo in due attività sportive, il salto in alto e il football- ero portiere. Quello che c’è in comune tra un saltatore e un portiere, è che sei da solo. Se ti alleni come saltatore, ti alleni da solo, è uno sport solitario, gareggi con te stesso. Devi allenarti e misurarti con te stesso. Quando scrivi sei molto solo. Non saprei dire che cosa  ci sia in comune: sei un bravo sportivo se hai senso del ritmo. Il processo di scrivere richiede senso del ritmo nella prosa e nella composizione del romanzo. Forse è questo. E poi, sia nello sport sia nella scrittura, devi essere ostinato, non rinunciare mai, non aver paura di essere da solo. Perché sei da solo con il testo, in una stanza vuota e solo con la storia che hai nella testa e che dirai. Parli soltanto con i tuoi personaggi. Il problema è quando i personaggi tacciono e non si muovono…


Ci sono parecchi punti di svolta nella sua vita che corrispondono, per lo più, ai punti di svolta della Storia d’Europa. Il primo è forse il 1965, con la guerra del Vietnam?
     Direi piuttosto che per me la prima data importante sia stata il 1956, quando ho fatto il grosso salto dal Nord della Svezia a Upssala, per l’università. Nuovi libri, nuovi amici. Andare all’università è stato un lungo viaggio, un lungo salto. Nel 1965 scrivevo I Legionari, andai nell’Unione Sovietica, non è stato facile. Poi c’è stato Berlino. Berlino e il Muro, la DDR. Ho imparato più negli anni a Berlino che in qualunque altro periodo della mia vita.


E’ stato a lungo scrittore di teatro. Lei ha detto che scrivere per il teatro è un lavoro meno solitario che non quello dello scrittore di romanzi. Ma qual è la differenza sostanziale, per uno scrittore?
    Nel teatro tutto deve venire dalla bocca degli attori, non si possono scrivere pagine di indagine psicologica. Scrivere un romanzo è un’esperienza unica: un romanzo è fabulazione, hai il controllo totale, nessuno si intromette, come accade invece nel teatro. Nel teatro sei parte di una squadra, c’è il regista, ci sono gli attori: troppe persone interferiscono e perdi il controllo. E tuttavia il teatro ha un forte impatto immediato.

La sua lunga dolorosissima crisi con l’alcol è stata causata in parte dal blocco dello scrittore?
     Sì, ma è vero anche l’opposto. Non scrivevo perché bevevo e bevevo perché non scrivevo. Era connesso. Oggi non ci penso, non è bene analizzarsi troppo. Ho smesso di bere. Nella mia autobiografia c’è molto umorismo nero- ho usato un certo umorismo perché altrimenti non ne avrei potuto scrivere. Infatti per ben 17 anni non ho affatto pensato di scriverne.

Si è sentito libero, sgravato di un fardello, dopo averne scritto? E’ stato, usando l’ immagine che Lei ha preso da Coleridge, come lasciar cadere l’albatross dentro il mare?

     Sì, l’albatross è così bello lassù, a terra è goffo. Gli scrittori non dovrebbero scrivere di sé perché sarebbero goffi, dovrebbero volare sempre in alto. Sono felice di aver scritto questo libro e sì, mi sono sentito liberato del peso dell’albatross intorno al mio collo.

La mia ultima domanda non Le farà piacere. In questa autobiografia manca, stranamente, la parte riservata ai sentimenti: c’è pochissimo di quello che Lei prova per i figli e per le donne della sua vita. E’ quella una rivelazione troppo personale? E’ l’ultima porta da aprire?
    Quando ha iniziato a farmi la domanda, ho sospettato che mi avrebbe chiesto questo. E’ vero. Il libro finisce nel 1990. Quello sarà per un altro libro. Quando scrivevo di quell’ultimo periodo, non biasimavo nessuno tranne me stesso, non volevo gettare nessuna ombra sulle mie mogli. Ecco perché non ne ho parlato. Dopo aver scritto il libro ho mandato il manoscritto in lettura alle mie ex mogli e ai miei figli, perché non volevo ferirli. Nessuno di loro ha voluto che togliessi alcunché dal testo, ma è vero che ci sono dei buchi neri. Ma tutto il libro è concentrato su una sola frase: com’è possibile che fosse incominciato tutto così bene e che poi finisse in quella maniera? Tuttavia io sono qui, sono vivo, ma poteva anche finire diversamente. Perché tutto è finito così male? E perché sono sopravvissuto? Non conosco la risposta, ma ci sono forse delle risposte nel libro che altri al di fuori della mia storia- e non io- riescono a vedere.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista letteraria "Stilos"
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martedì 28 aprile 2020

Per Olov Enquist, “Il libro di Blanche e Marie” 2007

                                                         vento del Nord
                                                     biografia romanzata


Per Olov Enquist, “Il libro di Blanche e Marie”
Ed. Iperborea, trad. Katia De Marco, pagg. 242, Euro 15,00
Titolo originale: Boken om Blanche och Marie

  Una straniera, forse ebrea, che in questo caso nascondeva e negava la sua origine ebraica, e che forse in fondo era una persona colpevole nel campo morale quanto Dreyfus in quello militare!!! come avrebbe stabilitoin seguito un giornale, e colpevole come Dreyfus lo era sicuramente.

    C’è una fama ambigua che circonda la Salpêtrière, l’ospedale parigino fondato dal Re Sole e diventato la Casa dei Folli dopo la rivoluzione. Luogo di ricerca scientifica per i medici ma anche un inferno dantesco di gironi bui affollati all’incredibile (fino a seimila pazienti potevano esservi ricoverati allo stesso tempo), maleodoranti, risonanti di grida e di lamenti. Qualcosa dell’atmosfera di questo luogo traspare nel romanzo dello scrittore svedese Per Olov Enquist, “Il libro di Blanche e Marie”, perché una delle donne del titolo, Blanche, vi era stata internata per quasi vent’anni, diventando la paziente preferita del famoso Charcot che sperimentava su di lei i metodi terapeutici per curare quello che allora veniva chiamato “isterismo”, una malattia esclusivamente femminile secondo l’epoca. Era in un certo senso famosa, Blanche Wittman: Freud e Strindberg, Babinski e Sarah Bernard avevano presenziato a sedute di ipnosi in cui Blanche era la paziente; le sue fattezze ci sono rimaste nel quadro che appare in copertina. Blanche era bella, come lo era Marie, che è Marie Curie, la scienziata polacca insignita per due volte del premio Nobel, per la scoperta del radio e le ricerche sulla radioattività.
Blanche Wittman
    Per Olov Enquist traccia un ritratto appassionato di entrambe, tirandole fuori dall’ombra del passato, fuori anche dalle luci della storia fissata nei libri, di scienze e di medicina. Immagina un “libro delle domande” scritto da Blanche, storia di due donne, di due vite, di un’amicizia in apparenza improbabile. E la domanda di tutte le domande è quale sia il segreto dell’amore. Blanche (ridotta su un carrettino, solo tronco e un braccio perché gli altri arti colpiti dalle radiazioni le erano stati amputati) era stata amata da Charcot ed era stato l’amore la causa della morte di lui: ne era colpevole lei? E Marie, dopo due amori giovanili in Polonia, aveva sposato Pierre Curie e, anni dopo la sua morte, si era innamorata una quarta volta, di un altro scienziato, Paul Langevin che la amava in silenzio da tempo.
     Non è soltanto il ritratto di due donne straordinarie, per intelligenza e ardire e umanità, che Per Olov Enquist traccia in questo romanzo, ma anche quello di un tempo- il primo decennio del Novecento- in cui era arduo essere ammalati ed essere donna, essere innamorati ed essere donna, essere intelligenti ed essere donna.
Marie Curie
O forse era semplicemente difficile vivere per chiunque uscisse fuori dai canoni prestabiliti. Il quadro delle isteriche alla Salpêtrière e delle cure loro riservate è sconvolgente, lo è pure la reazione pubblica alla relazione tra Paul Langevin e Marie Curie: si parla della donna che ruba il marito di un’altra, dell’ebrea straniera che rovina una famiglia, si rifà il nome di Dreyfus, dalla Svezia Marie viene invitata a non presentarsi a ritirare il Nobel (e lei ci va ugualmente). Manca solo una lettera scarlatta appuntata sul suo petto. Di lui (che si tira indietro) si tace.
    Lo stile di Enquist è incalzante, spezzato, come sotto la furia del racconto che deve essere fatto prima che sia tardi. Forse un po’ troppo enfatico, come venato di isterismo. Ma si addice perfettamente al carattere delle due donne.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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lunedì 27 aprile 2020

Incontro con Per Olov Enquist, autore de "Il medico di corte" 2001


                  

               
    



Atmosfera di festa, la sera del 28 novembre 2001 allo Spazio Krizia di Milano. Cento rose bianche per festeggiare il titolo numero 100 dell’Iperborea, la casa editrice fondata 13 anni fa da Emilia Lodigiani e specializzata nella pubblicazione della narrativa del Nord Europa. E non si poteva fare una scelta migliore per questo libro che segna un compleanno: “Il Medico di Corte”,dello scrittore svedese Per Enquist, è uno straordinario romanzo storico e politico ed è anche una bellissima storia d’amore. L’equilibrio tra la documentazione dei fatti e le passioni dei protagonisti, tra storia e immaginazione e poesia, è assolutamente perfetto, in un libro che è palpitante in ogni sua pagina. La vicenda dura quattro anni, tra il 1668 e il 1772, mentre l’Europa è percorsa da fremiti di novità che anticipano la Rivoluzione Francese. In Danimarca regna Cristiano VII, giovane e pazzo. Gli viene messo accanto un medico tedesco, Struensee, e Cristiano lo nomina presto Consigliere del Re, conferendo subito dopo lo stesso incarico al suo cane. Struensee è un intellettuale illuminista e pensa che forse il suo compito è quello di portare i Lumi in questo paese del Nord che non conosce la democrazia. Dà inizio ad una serie di riforme, troppo in fretta, troppo numerose. Aumentano le opposizioni a corte e i suoi nemici riescono ad intrappolarlo colpendolo nel punto più debole: il suo amore per la regina Caroline Mathilde, “la piccola sgualdrina inglese”. L’accusa è di oltraggio al re, la pena è la morte, l’esilio per Caroline e l’abrogazione di tutte le riforme. E’ finito il tempo di Struensee, ma ha segnato un’epoca, quella di “un sogno sulle possibilità dell’uomo”.

Per Olov Enquist è venuto apposta dalla Svezia per partecipare a questa serata. Ha l’aria di un ragazzo con i capelli bianchi, questo signore in giacca e cravatta, jeans e scarpe da ginnastica. Ha voglia di scherzare, parla in inglese, con un humour sottile che gli viene naturale come la lingua. Risponde in tono giocoso alle domande che gli vengono poste dallo scrittore Mario Baudino e dalla sua traduttrice, Carmen Cima, e si scusa dicendo, “so di non aver risposto con precisione a quello che mi avete chiesto”.

  Amore e potere: un intellettuale diviso tra questi due aspetti dell’esistenza. Qual è la cosa più importante per lui?

Cristiano VII
     Il sesso nella politica è un argomento centrale nel libro,anche se non so perché lo sia diventato. Sono un drammaturgo e mi affascinava il carattere di teatro da camera di questa storia che ha solo quattro personaggi. Un dramma sull’amore e l’odio e poi ancora l’amore. Se avessi scritto per il teatro, sarebbe stato un’ opera di due ore sul tema dell’amore. Ma è un romanzo, un romanzo sull’amore circondato dalla società e dai meccanismi della politica. E ci sono quattro personaggi con un rapporto complesso tra di loro. Il re ama Struensee e non ama la regina. Struensee è un uomo buono, ma è un cattivo uomo politico.

 Insomma, c’è un illuminista di buona volontà che tenta di riformare uno stato ma è indebolito dal suo innamoramento per la regina. Forse, se fosse riuscito ad organizzare il potere, anche l’amore per la regina non gli sarebbe costato la testa. Forse non è l’amore a perderlo, ma il non saper scegliere i suoi nemici. E’ una metafora della sfiducia nel ruolo politico dell’intellettuale?

Carolina Mathilde
     Il problema di Struensee è che, quando ottiene il potere, si comporta come se non esistesse tutto il campo di forze politiche che comprende, al di là del re, i proprietari terrieri, l’esercito, la nobiltà e la corte. Procede con le riforme, senza neppure mettere a morte i suoi nemici. In conclusione, anche se sono uno dei pochi scrittori politicizzati in Scandinavia, non penso che gli intellettuali siano buoni uomini politici. Spesso gli intellettuali fanno pasticci in politica e Struensee fallisce perché, prima di attuare le sue fantastiche riforme, doveva analizzare a fondo il campo politico, che è molto complesso.



Questa storia è vera, è il risultato di un’inchiesta sul passato. Quale è la parte di fiction, che cosa sfuggiva ai documenti e ha dovuto inventare?

     A questo libro si adatta la bella definizione di romanzo non-fiction, romanzo di non invenzione. Ogni fatto è basato su una ricerca. Le date e gli avvenimenti corrispondono a quelli sui documenti. Naturalmente quando Struensee e la regina fanno l’amore, questo non si trova nei documenti. Ci sono le testimonianze al processo, ma a questo punto ero io, in quanto scrittore, che dovevo intervenire per riempire gli spazi vuoti e creare un’interpretazione del rapporto tra di loro.
dal film "Royal Affair"
 C’è un’immagine ricorrente nel libro, quella degli uccelli che dormono avvolti nei loro sogni. Simboleggiano forse quello che non riusciamo a capire?
     
Non faccio mai uso di simboli e li odio. Se ne rimangono in un romanzo, è perché mi sono dimenticato di toglierli. Mi sforzo di scrivere una prosa che sia pulita e non bella. Penso che la bellezza nel testo venga fuori quando si eliminano i bei simboli.

 Fra gli scrittori svedesi, chi l’ ha più influenzata?
     
   Quando ero molto giovane, avevamo pochi libri, soprattutto libri religiosi. A 13 anni ho incominciato a leggere tutto quello che potevo, anche dieci libri alla settimana. Potrei citare una ventina di scrittori svedesi, ma sarebbe troppo noioso.



E’ chiaro che lei predilige il romanzo storico e mi sembra che scelga sempre dei personaggi controversi. Come li sceglie?

     A dire il vero, ho scritto solo due romanzi storici, però ho scritto molti libri che si basano su fatti, avvenimenti politici, e forse per questo si possono considerare come romanzi storici. A volte mi capita di scegliere una storia su cui scrivere un romanzo, poi mi accorgo che non va bene e, per fortuna, sono capace di distruggere un cattivo manoscritto. In questo caso è stato l’argomento che ha scelto me – ed è andata bene.



Per Olov Enquist, “Il Medico di Corte”
Ed. Iperborea, pagg. 405, L.32.000


Per Olov Enquist 1934-2020




in memoria




    Sabato 25 aprile è morto, dopo lunga malattia, Per Olov Enquist. Aveva 85 anni ed era una delle più autorevoli figure della cultura scandinava. Tra i suoi romanzi, “Processo a Hamsun”, “Il libro di Blanche e Marie”, “Il medico di corte”, “Un’altra vita”.
     L’ho incontrato per l’ultima volta a Torino, dieci anni fa. Per ricordarlo pubblicherò quello che ho scritto sui suoi libri e sul nostro incontro.



venerdì 24 aprile 2020

Serena Zoli, “La generazione fortunata” ed. 2005


                                                                 Casa Nostra. Qui Italia
                                                                la Storia nel romanzo



Serena Zoli, “La generazione fortunata”
Ed. Longanesi, pagg. 243

       Leggere il libro di Serena Zoli a distanza di quindici anni dalla sua pubblicazione e durante la pandemia da coronavirus dà una sensazione strana a chi- come me- appartiene alla ‘generazione fortunata’ del titolo, un misto di orgoglio e di esaltazione, di rimpianto e di sconforto. C’è qualcosa di profetico in una frase che troviamo nelle prime pagine quando la scrittrice anticipa quello che è il nostro sentire e la nostra paura in questi giorni: “i contorni del mondo a cui eravamo abituati si vanno deformando e frantumando, scricchiolano le certezze, gli orizzonti appaiono minacciosi.”
    Non è stata una ‘generazione perduta’ (come quella dei giovani nati all’inizio del secolo e che furono falciati sui campi della Grande Guerra, o quella dei nati negli anni ’20, vittime dell’altro conflitto che divampò in Europa), ma una ‘generazione fortunata’, quella di coloro che hanno avuto la buona ventura di nascere tra il 1935 e il 1950. E Serena Zoli, in una carrellata che ci fa rivivere più di mezzo secolo di una storia che sentiamo come ‘nostra’ e che ci emoziona, ci spiega il perché di tanta fortuna.
     Si inizia con qualcosa che sembrerebbe il contrario della fortuna, ma non lo è: ‘la santa necessità’, la penuria che abbiamo conosciuto e che ci ha educato a dare valore a quello che avevamo, a non sprecare, ad essere parsimoniosi. Ci ha insegnato soprattutto a desiderare, e ad agire per ottenere quello che desideravamo.

 Con questa premessa, quante conquiste gloriose inseguendo un’utopia! Serena Zoli cita un proverbio magrebino bellissimo, “nessuna carovana ha mai raggiunto l’utopia, però è l’utopia che fa andare la carovana”, e lamenta che oggi l’utopia non circoli più e le carovane siano ferme. A meno che non si voglia considerare un’utopia quella che sogna l’arricchimento, l’ideale dei soldi come direttiva di vita. Che tristezza. “Una generazione nata con i piedi nel Medio Evo e con la testa nel 2000”, scrive Serena Zoli. I treni erano lenti e c’era la terza classe con i sedili di legno, le case avevano una stufa- se si era fortunati- per riscaldare e i servizi igienici erano per lo più latrine all’aperto, si tornava dalla spesa con dei cartocci che contenevano un etto, mezz’etto di questo o di quello, il frigorifero era fantascienza.
Poi, a metà degli anni ‘50, il boom. I termosifoni nelle case, le mitiche automobili modello 500 e poi 600 in cui ci si stipava anche in più di cinque, l’invenzione del week-end (che fascino, quella parola straniera), le colonie al mare per i bambini. E poi, ancora, la possibilità di frequentare l’università con il pre-salario nel 1963 e di andare a studiare l’inglese come ‘au pair’ (altra parola nuova), le leggi sul lavoro, i congedi per maternità.
Ci eravamo dimenticati che siamo stati i primi ad avere i vantaggi della penicillina, degli antibiotici, del vaccino antipolio (alcuni non hanno fatto in tempo a farlo), di quello antidifterite, che ci siamo sentiti immortali senza le malattie che erano state causa dell’alta mortalità infantile prima di noi. Così come ci eravamo dimenticati di tutto il fermento, della nuova musica, della minigonna, del femminismo che ci aveva reso consapevoli di non dover sottomesse all’uomo. E, invece, sì, l’America di ‘allora’ era diversa. Era l’America del sogno americano, quella dei liberatori, quella delle frasi che restano incise nella nostra memoria, “ich bin ein Berliner” di Kennedy, “I have a dream” di Martin Luther King. Poi è successo qualcosa e l’America è diventato ‘un paese che ostenta i muscoli’.
    Ci sono state anche le cose negative- il terrorismo, la droga- e però la nostra generazione era già un poco più avanti con gli anni per cadere in queste trappole.

Siamo stati anche gli ultimi fortunati a giocare per strada senza sorveglianza, a inventarci giochi con qualunque cosa ci capitasse tra le mani, a non avere allergie, a vedere le lucciole, ad usare le cartoline postali e ad avere sempre le ginocchia sbucciate.
    È un libro che risveglia tanti ricordi, quello di Serena Zoli, in chi appartiene alla generazione fortunata. E che ha il valore di una testimonianza per chi ha sentito parlare del ‘mito’ di quegli anni.
“Può essere che il prezzo da pagare arrivi in extremis, verso il traguardo finale, ma in ogni caso, ormai ce l’abbiamo fatta.” È arrivato adesso il prezzo da pagare, con il coronavirus?

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Scelte di lettura durante la Quarantena


    



    Di certo chi segue questo blog di libri avrà osservato che le mie scelte di lettura sono diverse da quelle di ‘prima’: in questo non-tempo in cui il mondo si è fermato mi è stato possibile non rincorrere sempre le nuove pubblicazioni e sbizzarrirmi a tirare giù dagli scaffali libri che non avevo avuto tempo di leggere prima, rimasti in attesa di questo momento per anni. E ho goduto molto di questa libertà.

domenica 19 aprile 2020

Abir Mukherjee, “L’uomo di Calcutta” ed. 2018


                                                  
Voci da mondi diversi. India
      cento sfumature di giallo

Abir Mukherjee, “L’uomo di Calcutta”
Ed. Sem, trad. A. Colitto, pagg. 348, Euro 17,00, formato Kindle 4,99

     Calcutta, 1919. Calcutta che, mezzo secolo più tardi, sarebbe stata conosciuta come ‘la città della gioia’, dal titolo del famoso romanzo di Dominique La Pierre. Perché questo era il segreto di Calcutta- come potesse, nello stesso tempo, essere una città spaccata in due, tra gli slum maleodoranti e gli splendidi palazzi di fasto britannico, tra i poveri della terra e i molto ricchi, e che riuscisse, nonostante tutto, ad essere così vitale, illuminata dai sorrisi della sua gente.
    In questa città che conserva ancora l’orgoglio di essere stata, fino al 1911, la capitale, arriva Sam Wyndham, nuovo ispettore di polizia. Ha ragione la bella segretaria Annie Grant quando, in risposta alle sue parole scherzose, che è venuto in India per salvare lei, ribatte che forse, invece, è venuto per salvare se stesso. Perché Sam è inseguito dai suoi diavoli- i ricordi traumatici della guerra da cui è tornato quasi indenne a cui si somma quello dell’amatissima moglie, morta di parto insieme al loro bambino, e poi la dipendenza dalla morfina che gli era stata somministrata per la ferita riportata. Non ha neppure il tempo di ambientarsi, ha trovato provvisoriamente alloggio in una pensione, e deve affrontare il suo primo caso: il cadavere di un funzionario britannico viene ritrovato in un vicolo puzzolente della Città Nera. Con il cinismo che impareremo a riconoscere come un suo tratto, Sam non si stupisce della folla che si raduna per guardare il morto- un omicidio è uno spettacolo apprezzato ovunque e, per vedere un sahib morto in una stradina dietro un bordello della Città Nera, qualcuno pagherebbe addirittura il biglietto. Il morto ha un pezzo di carta in bocca- su carta raffinata il messaggio in bengali aulico invita gli inglesi a lasciare l’India. C’è un movente politico dietro l’assassinio? Che cosa ci faceva l’assistente del governatore in quella parte della città?

     Poco dopo giunge la notizia di un assalto al treno postale. C’è stato un morto. Sono stati i terroristi ad assaltare il treno? In definitiva non hanno rubato nulla. Cercavano qualcosa che non hanno trovato?
    Abir Mukherjee, cresciuto in Scozia in una famiglia di origine indiana, ha scritto un romanzo bello e insolito. Perché la trama si svolge in una Calcutta di cui ci fa esplorare sia gli ambienti britannici dove regna l’ipocrisia di coloro che hanno la faccia tosta di credersi dei protettori e invece sono dei parassiti che sfruttano le ricchezze della colonia, sia quelli più sordidi, portandoci in una fumeria d’oppio e in un bordello. Perché la tradizionale ‘coppia’ di investigatori è formata dal capitano Wyndham e da un sergente indiano che viene presentato come ‘uno dei migliori nuovi acquisti della polizia imperiale’. Sono il tono sarcastico di questa presentazione e il nome del sergente, storpiato in ‘Surrender-not’ Banerjee perché gli inglesi non riescono a pronunciare il suo vero nome, Surendranath, a dire tanto della sotto-narrativa del romanzo che giunge al suo culmine con il processo-farsa del terrorista arrestato e i tumulti di Amritsar (il comandante della guarnigione aveva ordinato di sparare su una folla di dimostranti disarmati).
Sono questi fatti che portano a maturazione una nuova consapevolezza di Wyndham, l’inglese che non è stato ancora corrotto dal generale atteggiamento di superiorità dei britannici, e il cambiamento di Surrender-not, l’uomo colto e laureato a Cambridge che si era arruolato nella polizia per imparare a gestire un ente che- un giorno, ne era certo- sarebbe passato nelle mani degli indiani, quando gli inglesi avrebbero lasciato l’India. Dopo i fatti di Amritsar, Surrender-not non vuole più collaborare con un governo che uccide il suo popolo.
      Un finale che rende giustizia all’atmosfera del romanzo.

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giovedì 16 aprile 2020

Marie Vieux-Chauvet, “Amore Rabbia Follia” ed. 2007


                                                                      Voci da mondi diversi. Haiti


Marie Vieux-Chauvet, “Amore Rabbia Follia”
Ed. Bompiani, trad. Marina Rotondo, pagg. 389

     Qualcosa sulla storia di questo romanzo, sulla sua scrittrice e sul paese in cui è stato scritto, per iniziare. L’edizione italiana è del 2007 e rimpiango non aver letto appena pubblicato questo libro che viene definito il capolavoro della letteratura haitiana. Di certo “Amore, rabbia, follia” è una fortissima denuncia della dittatura dei Duvalier- padre e figlio- dal 1957 al 1986. Ed è anche un libro coraggioso per cui la scrittrice Marie Vieux-Chauvet ha pagato caro. Fuggita in esilio (morì a New York nel 1973), per evitare rappresaglie contro la famiglia rimasta ad Haiti il marito fece incetta di tutte le copie in circolazione, mentre la scrittrice chiedeva a Gallimard (suo editore in Francia) di bloccare la vendita dell’opera. Eppure ci sono romanzi la cui voce non può venire soffocata. Come i romanzi dei dissidenti russi, anche “Amore Rabbia Follia” continuò a circolare in una sorta di samizdat haitiana.
papa Doc
       Non c’è un’unica trama, ma tre lunghi racconti ambientati nel 1939- epoca di passaggio tra l’occupazione americana e la dittatura di Papa Doc di cui già incombe l’ombra pesante in personaggi arroganti e violenti, come il comandante Calédu in “Amore”. Un titolo tanto ironico (nel vero senso della parola) per il primo racconto quanto è ironico e mal appropriato il nome del personaggio narrante, Claire. Claire è la prima di tre sorelle di una famiglia della vecchia aristocrazia in declino ed è anche l’unica delle tre che, per uno scherzo della genetica, ha la pelle nera. Claire è un concentrato di amore frustrato, di rabbia soppressa, di follia tenuta a freno. Lei, per cui rispolveriamo il desueto termine di ‘zitella’, si sente messa da parte, invisibile agli occhi del cognato francese che ha scelto la bionda e scialba Felicie, considerata poco più di una domestica sia da Félicie sia dalla sorella minore, bella e appariscente, che prima tenta di sedurre il cognato e poi finisce per sposare un nero che in altri tempi non sarebbe mai stato ammesso nella loro famiglia. Anche Claire è innamorata del cognato che neppure si accorge di lei. Si ispessice l’atmosfera di violenza, sia tra le mura della casa, sia fuori. Violenza sessuale (l’ignobile Calédu stupra una signorina di mezza età mutilandola al punto di renderle difficile camminare) e violenza politica tra la banda di straccioni che militano tra le fila di Calédu. Diventa palpabile l’attrito tra le classi sociali, tra le persone suddivise in base alle sfumature del colore della pelle, tra chi pratica gli antichi riti del voodoo e chi invece la religione cristiana.
'baby' Doc Duvalier
      È un ribollire di sentimenti, è una minaccia che grava nell’aria haitiana che ritroviamo più accentuati ancora nel secondo racconto, “Rabbia”, in cui ogni personaggio sembra avere un ruolo simbolico in un’altra famiglia ‘bene’ di Haiti che si vede espropriata dalla sua terra, senza un motivo. Un padre debole che ‘vende’ sua figlia al comandante nero e tiranno (lo chiamano ‘il gorilla’, e non c’è altro da aggiungere), un figlio inetto aspirante ad una laurea, un bambino che nella sua menomazione tira fuori le tare dell’ascendenza materna, un nonno che rappresenta il passato di una dignità che nel presente è impossibile. E infatti muore.
      C’è un ulteriore degrado nell’ultima parte, “Follia”, con un gruppo di giovani poeti che passano il tempo bevendo, come se ormai ogni speranza fosse persa, come se volessero lasciare fuori tutta la violenza che bussa alle porte e che finirà per sfondarle.
     Una voce potente, quella di Marie Vieux-Chauvet. Da ascoltare.

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