Voci da mondi diversi. India
cento sfumature di giallo
Abir Mukherjee, “L’uomo di Calcutta”
Ed. Sem,
trad. A. Colitto, pagg. 348, Euro 17,00, formato Kindle 4,99
Calcutta, 1919. Calcutta che, mezzo secolo più tardi, sarebbe stata
conosciuta come ‘la città della gioia’, dal titolo del famoso romanzo di
Dominique La Pierre. Perché questo era il segreto di Calcutta- come potesse,
nello stesso tempo, essere una città spaccata in due, tra gli slum maleodoranti
e gli splendidi palazzi di fasto britannico, tra i poveri della terra e i molto
ricchi, e che riuscisse, nonostante tutto, ad essere così vitale, illuminata
dai sorrisi della sua gente.
In questa città che conserva ancora l’orgoglio di essere stata, fino al
1911, la capitale, arriva Sam Wyndham, nuovo ispettore di polizia. Ha ragione
la bella segretaria Annie Grant quando, in risposta alle sue parole scherzose,
che è venuto in India per salvare lei, ribatte che forse, invece, è venuto per
salvare se stesso. Perché Sam è inseguito dai suoi diavoli- i ricordi
traumatici della guerra da cui è tornato quasi indenne a cui si somma quello
dell’amatissima moglie, morta di parto insieme al loro bambino, e poi la dipendenza
dalla morfina che gli era stata somministrata per la ferita riportata. Non ha
neppure il tempo di ambientarsi, ha trovato provvisoriamente alloggio in una
pensione, e deve affrontare il suo primo caso: il cadavere di un funzionario
britannico viene ritrovato in un vicolo puzzolente della Città Nera. Con il
cinismo che impareremo a riconoscere come un suo tratto, Sam non si stupisce
della folla che si raduna per guardare il morto- un omicidio è uno spettacolo
apprezzato ovunque e, per vedere un sahib
morto in una stradina dietro un bordello della Città Nera, qualcuno pagherebbe
addirittura il biglietto. Il morto ha un pezzo di carta in bocca- su carta
raffinata il messaggio in bengali aulico invita gli inglesi a lasciare l’India.
C’è un movente politico dietro l’assassinio? Che cosa ci faceva l’assistente
del governatore in quella parte della città?
Poco dopo giunge la notizia di un assalto al treno postale. C’è stato un
morto. Sono stati i terroristi ad assaltare il treno? In definitiva non hanno rubato
nulla. Cercavano qualcosa che non hanno trovato?
Abir Mukherjee, cresciuto in Scozia in una famiglia di origine indiana,
ha scritto un romanzo bello e insolito. Perché la trama si svolge in una
Calcutta di cui ci fa esplorare sia gli ambienti britannici dove regna
l’ipocrisia di coloro che hanno la faccia tosta di credersi dei protettori e
invece sono dei parassiti che sfruttano le ricchezze della colonia, sia quelli
più sordidi, portandoci in una fumeria d’oppio e in un bordello. Perché la
tradizionale ‘coppia’ di investigatori è formata dal capitano Wyndham e da un
sergente indiano che viene presentato come ‘uno dei migliori nuovi acquisti
della polizia imperiale’. Sono il tono sarcastico di questa presentazione e il
nome del sergente, storpiato in ‘Surrender-not’ Banerjee perché gli inglesi non
riescono a pronunciare il suo vero nome, Surendranath, a dire tanto della
sotto-narrativa del romanzo che giunge al suo culmine con il processo-farsa del
terrorista arrestato e i tumulti di Amritsar (il comandante della guarnigione
aveva ordinato di sparare su una folla di dimostranti disarmati).
Sono questi
fatti che portano a maturazione una nuova consapevolezza di Wyndham, l’inglese
che non è stato ancora corrotto dal generale atteggiamento di superiorità dei
britannici, e il cambiamento di Surrender-not, l’uomo colto e laureato a
Cambridge che si era arruolato nella polizia per imparare a gestire un ente
che- un giorno, ne era certo- sarebbe passato nelle mani degli indiani, quando
gli inglesi avrebbero lasciato l’India. Dopo i fatti di Amritsar, Surrender-not
non vuole più collaborare con un governo che uccide il suo popolo.
Un finale che rende giustizia all’atmosfera del romanzo.
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