Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
Salvatore Scibona, “Il volontario”
Ed. 66thand2nd, trad. M. Martino,
pagg. 439, Euro 20,00
I primi a soprannominarlo il
Volontario erano stati i genitori. Forse perché era arrivato inatteso,
figlio di genitori anziani. Poi- nomen omen- si era arruolato volontario nei marines quando non aveva ancora compiuto
i diciotto anni, mentendo sull’età. Perché lo aveva fatto? Sperava forse
nell’intervento di suo padre, che lo smentisse impedendogli quel colpo di
testa? E invece no, e il Volontario era diventato per tutti Vollie, soprannome
di un soprannome, ed era stato mandato in Vietnam a guidare autocarri. Quando
aveva finito la ferma ed era stato rimandato in patria, miracolosamente vivo,
aveva firmato per ritornare laggiù. Per non tornare a casa? Vollie non se lo
chiede. Era stato fatto prigioniero in Cambogia, ma Vollie non sapeva neppure
di trovarsi in Cambogia quando era rimasto vittima di un agguato e trasportato
in un tunnel con due compagni. Solo lui era sopravvissuto. Per scoprire che doveva
tacere, che lui non esisteva, che quella missione in Cambogia era top secret e
nessuno doveva saperne nulla e perciò non
era stata fatta. E lui, Vollie, sarebbe stato ‘cancellato’, gli avrebbero dato
un’altra identità, sarebbe entrato nei servizi segreti.
Il romanzo di Salvatore Scibona, tuttavia, non inizia con le vicende di
Vollie ma con un bambino di cinque anni, Janis, abbandonato dal padre Elroy
nell’aeroporto di Amburgo. Figlio di Elroy e di una donna lettone, Elroy
avrebbe dovuto portarlo con sé in America, a vivere con lui e con Vollie, suo
tutore legale. E invece Elroy mette dei soldi in tasca al bambino, lo porta
nelle toilettes dell’aeroporto e si imbarca da solo. Al padre-tutore dice solo
che ‘non ha funzionato’. Il vecchio allevatore analfabeta padre di Vollie,
Vollie, Elroy di cui si sa chi sia la madre ma non il padre, nato in una
comunità basata sull’amore che significava fare sesso con tutti, e il piccolo
Janis: un ritratto dell’America attraverso quattro generazioni di uomini tra cui
sono Vollie ed Elroy ad avere il ruolo più importante. Uomini soli, incapaci di
darsi anche quando hanno una donna al fianco, e chissà se sia l’assenza di un
nucleo familiare forte a renderli come sono, continuamente in viaggio nel
tentativo di perdersi o di annullarsi, nella guerra del Vietnam l’uno e in
quella dell’Afghanistan l’altro, a New York e negli spazi sconfinati del New
Mexico dove è facile far perdere le proprie tracce.
Il personaggio di Vollie,
che ad un certo punto deve cambiare nome diventando il signor Tilly, che si
rende complice di un duplice omicidio di cui non capisce il motivo e il cui
ricordo lo tormenterà tutta la vita, è il più pienamente raffigurato. Vollie
conosce il senso di colpa che invece non sembra sfiorare Elroy, figlio dei
figli dei fiori a cui non potremo mai perdonare di aver abbandonato un bambino
nell’aeroporto di un paese di cui neppure conosce la lingua. Ma Elroy, soggetto
ad attacchi di violenza ed è pure finito in prigione, è anche una vittima- il
suo secondo nome è Peace, la pace che è stato il sogno della generazione che
aveva perso l’innocenza in Vietnam, in una guerra da cui nessuno era mai
veramente tornato e che era rimasta nei loro incubi, trasmessi ai figli come
una colpa che passa di generazione in generazione. Sarà Vollie a chiudere il
cerchio, a rimediare agli errori del giovane uomo che non è suo figlio (quanti
figli non voluti o figli non figli di sangue, in questo romanzo), a
ricongiungere la fine del romanzo al suo inizio, a prolungarlo in un futuro che
deve ancora venire in cerca di un luogo di pace.
Un romanzo forte e duro che, nel nostro immaginario, sostituisce una
nuova lost generation a quella di
Hemingway e Fitzgerald e Steinbeck e Dos Passos.
Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook.
Lo scrittore era presente al Festival della Letteratura di Mantova
Nessun commento:
Posta un commento