Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
noir
la Storia nel romanzo
il libro ritrovato
David Peace, “Tokyo anno zero”
Ed. Il Saggiatore, trad. Marco
Pensante, pagg. 435, Euro 17,00
Tokyo 1946. Mentre in città la
gente patisce la fame ed è divorata dai pidocchi, i cadaveri di due donne
stuprate e strangolate vengono ritrovati nel parco Shiba. L’ispettore Minami
collega il caso con quello simile di un’altra donna, assassinata un anno prima.
E, mentre cerca di risolverlo, affronta i fantasmi del suo passato, che è anche
il passato di un paese intero che ha combattuto prima in Cina e ora è sotto il
tallone dei vincitori americani.
INTERVISTA A DAVID PEACE, autore di “Tokyo anno zero”
“Tokyo anno zero”, come il film di Rossellini “Germania anno zero”,
oppure, nella storia dei nostri giorni, potrebbe essere “Baghdad anno zero”- a
significare una città o un paese che ripartono dal nulla, stremati, distrutti,
ridotti in macerie da una guerra. Lo scrittore inglese David Peace, dopo aver
terminato l’affresco in nero dello Yorkshire degli anni ‘70 e ‘80, ha scritto
il primo romanzo di una trilogia ambientata in Giappone, dove vive da tredici
anni.
“Tokyo anno zero” è, se
possibile, un libro ancora più angosciante di quelli della serie del “Red
Riding Quartet”, un libro che paralizza il cuore. Inizia il 15 agosto 1945: il
corpo di una ragazza viene ritrovato in un rifugio antiaereo allagato dagli
scarichi delle fogne e intanto la radio trasmette il discorso al popolo
dell’imperatore Hirohito. Il cadavere galleggia nei liquami e nella merda, il
fungo atomico si è sollevato su Hiroshima e Nagasaki, e la voce del discendente
della dea del Sole è quasi irriconoscibile: le sue parole sono così confuse che
tra gli ascoltatori- in un’eco della scena shakespeariana nel “Giulio Cesare”-
serpeggia la domanda, “Che ha detto?”, insieme a quell’altra, “Abbiamo vinto?”,
che rivela una totale mancanza di consapevolezza.
Un anno dopo i corpi di altre due ragazze vengono
trovati nel parco Shiba e l’indagine è affidata all’ispettore Minami che
collega le due morti con quella dell’anno prima, e poi con altri casi ancora,
di giovani donne scomparse e mai ritrovate. Questa la traccia centrale del
romanzo e non possiamo fare a meno di vedere, nei casi delle ragazze stuprate,
l’immagine di una intera nazione violentata, le sue donne reclutate per offrire
piacere al vincitore in un gigantesco bordello- “Potrebbe essere chiunque”,
dice una ragazza a Minami che le mostra degli abiti. “E’ tutte quante noi. Ogni
donna del Giappone”. Inoltre c’è una sensazione di inutilità assurda
nell’accanito tentativo di dare un nome alle vittime, quando ci sono milioni di
urne di ceneri non reclamate; c’è una disparità significativa di numeri, tra la
dozzina di corpi femminili e i tre milioni di vittime della guerra. Su questo
tema si innestano gli altri, del paese che esce dalla guerra umiliato, più di
quanto possa essere comprensibile per la cultura occidentale, trasformato in
tutti i sensi da questa sconfitta- non solo sono scomparsi edifici e locali, ma
“nessuno è quel che dice di essere” in un paese in cui si temono continue
epurazioni. Non lo è l’assassino, decorato con medaglie durante la guerra con la Cina ; non lo sono ispettori
di polizia che si sono riciclati come tali, ma prima erano nella Kempeitai, la
polizia militare giapponese; non lo è neppure Minami, ridotto a chiedere soldi
e sonniferi ad un boss del mercato nero, ossessionato dai ricordi dei
combattimenti in Cina (“Allora avete visto quello che ho visto io. Avete fatto
quello che ho fatto io”, gli dice l’assassino confesso), dal senso di colpa per
tradire la moglie e trascurare i figli, impaziente con i suoi connazionali
prostrati (“E’ passato un anno da quando il popolo si è inginocchiato e ha
pianto. E’ passato un anno intero, ma il popolo è ancora in ginocchio, in
ginocchio, in ginocchio, in ginocchio…Alzatevi!
Alzatevi!”).
Chi ha letto i precedenti romanzi di David
Peace conosce già il suo stile, la sua maniera di portare avanti una duplice
narrazione di cui una si svolge nella mente di un personaggio e viene
continuamente interrotta per riprendere in seguito il filo dove si è arrestata,
più avanti nel corso della storia principale che a sua volta è inframmezzata
dal monologo interiore dell’ispettore Minami. Conosce pure il frasare breve e
incalzante, le ripetizioni che danno enfasi al sentimento che si vuole
comunicare. In “Tokyo anno zero” le ripetizioni onomatopeiche- il martellante ton ton della ricostruzione, il gari gari del grattarsi di Minami in
lotta contro i pidocchi, il chiku-taku
dell’orologio del tempo- sono per lo più ossessive e segnale di un grosso
turbamento interiore (“Che cosa porterà il domani? La vita? La morte in
battaglia?”, oppure la follia?), mentre altrove si caricano di poesia e
ricordano i versi di T.S.Eliot: la terra desolata è in Oriente, gli uomini
vuoti, i morti in vita, sono i sopravvissuti di un’altra guerra. E si avverte
un singhiozzo nella frase, “E’ così che parlano gli Sconfitti…Noi siamo i sopravvissuti. Noi siamo i
fortunati.” Abbiamo intervistato David Peace su questo primo romanzo della
nuova trilogia.
Dunque, ha cambiato lo sfondo per i suoi romanzi, come ci aveva
anticipato dopo “GB 1984”: aveva finito con quello che voleva raccontare dello
Yorkshire e della Gran Bretagna? E’ un segnale che è andato avanti e, dopo 13
anni in Giappone, era pronto per qualcosa di diverso?
A dire il vero non ho ancora terminato con
l’Inghilterra. Ho in mente di scrivere altri due libri ambientati in
Inghilterra e nello Yorkshire; prima, però, terminerò la trilogia di Tokyo. Non
so spiegare bene, ma era il momento giusto per smettere di scrivere dell’Inghilterra
e quello giusto per iniziare a scrivere del Giappone. Dei due libri “inglesi”
uno avrà come sfondo lo Yorkshire e l’altro sarà un quadro più ampio
dell’Inghilterra con Harold Wilson in un periodo che va dal 1968 al 1979. Si
intitolerà “UKDK”, una sigla che è un gioco di parole impossibile a tradurre:
UK è chiaro, DK suona come “decay”, il decadimento dell’Inghilterra.
Questo cambiamento ha avuto delle conseguenze su di Lei, nel suo
intimo? Ha avvertito una sorta di lacerazione?
Vivo a Tokyo dal 1994, ho due bambini che
sono giapponesi perché la loro mamma è giapponese, per me era naturale scrivere
del Giappone, ad un certo punto. Gli spunti di partenza per la mia ispirazione
sono stati due: da una parte ero affascinato dalla storia di Tokyo nel ‘900,
particolarmente il periodo dell’occupazione americana con le conseguenze che si
fanno sentire fino ai nostri giorni. Quando mio figlio ha iniziato ad andare a
scuola, mi sono reso conto che la
Storia che gli insegnavano non era molto accurata- cosa che
capita ovunque, peraltro. E allora mi sono messo in mente di scrivere la Storia per i bambini. E per
me stesso, naturalmente, perché prima di tutto ero io che dovevo sapere: quando
andavamo in giro per Tokyo e i bambini mi facevano delle domande, io volevo
essere in grado di rispondere. E sì, ho avvertito una certa lacerazione, ma
lieve: dopo tutto non vivo in Gran Bretagna da 16 anni, perché ho abitato a
Istanbul prima di andare in Giappone. E il Giappone ora è la mia “casa”.
Ha trovato più difficile scrivere questo romanzo, parlare di un paese
che non è il suo, mettersi nei panni di un personaggio sconfitto e che
appartiene ad un popolo sconfitto, un orientale?
E’ stato molto difficile. Ad essere sincero, avevo in mente di iniziare
subito dopo aver finito il “Red Riding Quartet”, ma non ce l’ho fatta. Mi
sentivo intimidito e spaventato dal cercare di capire non solo la cultura
diversa, ma anche un’epoca, il 1945, così lontana dalla mia esperienza. Mi ci è
voluto molto tempo per acquistare fiducia. Quanto all’immedesimarmi con il
sentimento della sconfitta, in un certo senso anche il “Red Riding Quartet” e “GB
1984”
sono libri sulla sconfitta. Lo Yorkshire è un luogo di sconfitta. Mi è stato
più arduo scrivere con la voce di un giapponese che trattare della sconfitta.
Avevo paura di fare errori, di fargli fare qualcosa che andava contro la sua
cultura.
Ha detto che lo Yorkshire è un luogo di sconfitta: in che senso?
Tecnicamente la storia d’Inghilterra
finisce con il 1066, con la battaglia di Hastings, quando i Sassoni furono
sconfitti dai Normanni. Ma l’esercito sassone si ritirò nello Yorkshire. I
francesi dopo un po’ li seguirono a Nord e fecero un massacro, uccidendo tutti
i bambini maschi, cospargendo la terra di sale. E’ quello che viene chiamato “the harrowing of the North”, parola
antiquata che suonerà antiquata anche in italiano, penso, l’erpicatura del Nord,
lo strazio del Nord. Poi ci fu la
Guerra delle Rose, la casa di York contro la casa di
Lancashire, e la casa di York perse nuovamente. Nei tempi moderni ci furono lo
sciopero dei minatori e tutte le difficoltà durante il governo dei
Conservatori, che non fecero nulla per aiutare lo Yorkshire: ecco perché è un
luogo di sconfitta.
Il parallelismo tra il titolo del romanzo e il film di Rossellini
“Germania anno zero” è chiaro: il titolo è simile perché la condizione di Tokyo
è simile a quella di Berlino oppure anche perché ammira il regista italiano e
lo stile del suo libro può essere paragonato al realismo di Rossellini?
Per entrambi i motivi. Non dico di avere raggiunto la grandezza di
Rossellini, ma sì, c’è un parallelismo tra Berlino e Tokyo. Ammiro lo stile di
Rossellini, il suo film che è una sorta di documentario in cui mostra la
distruzione della Germania, come io faccio per il Giappone nel mio libro.
Sia la Germania
sia il Giappone subirono la sconfitta: pensa che l’abbiano vissuta in maniera
diversa? Oppure pensa che anche la
Germania , con la storia che aveva alle spalle, risentì della
perdita dell’onore, proprio come il Giappone?
E’ un argomento molto interessante, paragonare le sconfitte e la maniera
in cui la sconfitta viene vissuta e ricordata. La differenza, prima di tutto, è
che per il Giappone questa era la prima volta che si arrendeva, che veniva
sconfitto e occupato, alla Germania era già successo. A causa della guerra
civile cinese e della guerra in Corea, agli americani non conveniva mettere
sotto accusa i giapponesi per le atrocità commesse in Cina, come fu fatto
invece in Germania. Sì, ci fu un processo per i crimini di guerra, ma è una
questione piuttosto complicata. La mia impressione è che il Governo e i media
giapponesi rappresentino il Giappone sempre e soltanto come vittima della
guerra, a causa di Hiroshima e Nagasaki, e anche per i bombardamenti al fosforo
su Tokyo. O almeno, mio figlio a scuola impara solo questo.
Parlando del suo libro, mi sono resa conto che molti non sapevano che
anche Tokyo era stata così duramente bombardata, completamente distrutta. E’
perché conosciamo “quella” parte di storia attraverso gli americani?
La storia è sempre scritta dai vincitori.
A Berlino gli Alleati fecero arrivare cibo e vestiario, ai giapponesi invece
gli americani dissero, in pratica, di arrangiarsi. E’ vero che ci fu un certo
razzismo nel bombardare Hiroshima e Nagasaki: gli americani consideravano i
giapponesi degli esseri umani inferiori. Sappiamo per certo che si dovette
procedere a una rieducazione dei soldati inviati come forza di occupazione,
perché la propaganda di guerra aveva disumanizzato il nemico.
Che cosa ha contribuito alla creazione del personaggio di Minami?
Minami è nato dalla ricerca che ho fatto
per scrivere il romanzo. Mentre facevo ricerche, ho scoperto che molti
giapponesi che facevano parte della polizia militare si erano poi uniti alla
polizia civile, cambiando nome per nascondere la loro identità. Accadde anche a
molti altri funzionari e burocrati. Ecco, mi affascinava l’idea che dopo la
sconfitta il Giappone era all’anno zero e anche l’identità era azzerata, e
tutto quello che era stato insegnato prima era una menzogna. Anche Minami si
deve ricostruire come il Giappone. E’ lacerato tra il voler dimenticare e dover
ricordare per scoprire chi egli sia. I giapponesi si riferiscono a quel tempo
come all’Epoca della Confusione.
Mentre faceva ricerche, sapeva già che tipo di crimine voleva per dare
inizio al libro? Donne stuprate e uccise sembrano essere troppo simboliche,
troppo una metafora per essere una scelta casuale…
Avevo letto di questo delitto poco dopo
essere arrivato in Giappone nel 1994, un paio di frasi in un libro. Mi aveva
colpito il fatto che in una città distrutta, dopo tutte le morti della guerra,
ci fosse un serial killer. Cerco sempre un delitto che mi permetta di
illuminare il contesto politico e sociale del tempo. Sentivo che questi crimini
brutali potevano succedere solo in quel momento: Kodaira offre cibo e lavoro
alle donne che attira a sé, perché non c’era né cibo né lavoro per i più. Il
delitto deve dire qualcosa sul tempo
e sul luogo.
Ho osservato che, a differenza degli altri romanzi, non c’è musica in
questo suo libro e ci sono invece molti suoni onomatopeici a sostituire la
musica…
In realtà c’è una canzone ricorrente che
era popolare in quegli anni, “La canzone della mela”, una canzone ottimista che
si sente al mercato nero e il mercato nero simbolizza il nuovo Giappone che sta
sorgendo, il Giappone capitalista. Ma volevo portare una musica diversa nel
libro, il rumore della pioggia, il battere dei martelli…Non c’è musica perché
volevo ascoltare la città, volevo sentire gli odori e i suoni della città.
“Tokyo anno zero” è il primo di una trilogia: in quali anni si
svolgeranno i due romanzi seguenti?
I prossimi due romanzi saranno
ambientati nel 1948 e 1949. Saranno fondamentalmente la storia dell’occupazione
americana in Giappone e come nasce il nuovo Giappone. E no, non ci sarà lo
stesso personaggio, Minami. Non volevo fare dei romanzi seriali.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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