martedì 31 gennaio 2017

Jens Christian Grøndahl, "Spesso sono felice" ed. 2017

                                                                       vento del Nord
          FRESCO DI LETTURA

Jens Christian Grøndahl, "Spesso sono felice"
Ed. Feltrinelli, trad. Eva Kampmann, pagg. 102, Euro 12,00

   Ellinor è la voce femminile che sentiamo in questo breve romanzo dello scrittore danese Jens Christian Grøndahl. Si rivolge ad Anna, forse è in piedi davanti alla tomba di Anna e accanto a quella di ‘tuo marito, nostro marito’. Ci vogliono un paio di pagine per afferrare la situazione. Georg è stato il marito di Anna e ha sposato in seconde nozze Ellinor che si è presa cura dei loro due figli gemelli come se fossero i suoi. Che cosa sia successo, come e perché Ellinor abbia finito per sposare il marito della sua migliore amica sono gli elementi della trama che, naturalmente, non posso svelare.
    Ellinor ha settant’anni. Ha conosciuto infelicità e felicità. Come tutti. E’ cresciuta solo con sua madre che le ha detto poco del padre. Quando gliene parlerà, sarà come un altro piccolo romanzo dentro il romanzo perché è una storia che risale al tempo della guerra, alla presenza dei soldati tedeschi sul suolo danese. Ellinor e la madre abitavano in Amerikavej, nella zona povera di Copenhagen. Ellinor se ne era andata di casa a diciotto anni, ma adesso è lì che vuole tornare, è quasi di fronte alla sua vecchia casa che trova un appartamento e lo compera, lasciando stupito perfino l’agente immobiliare.
I figli gemelli di Georg e Anna, ormai adulti, sono esterrefatti, punti sul vivo perché lei venderà la bella villa del loro padre. Per andare ad abitare dove, poi? Tra prostitute, tossici e musulmani, come le dice uno dei figli. “Non passa giorno che non si abbia notizia di sparatorie e di bande criminali”. Eppure questo è quello che Ellinor vuole fare, come se, riavvolgendo indietro il nastro della vita, potesse cancellare i ricordi che bruciano, la delusione del non poter avere figli, il tradimento delle persone di cui si fidava e che più le erano vicine. Cancellare perfino, o meglio, assopire la nostalgia che prova per Georg che non c’è più- ed è più facile fra pareti che lui non ha mai visto, guardando da finestre da cui lui non si è mai affacciato. E avvicinarsi invece alla madre, comprendendo quello che non aveva mai capito.
      Jens Christian Grøndahl ha una capacità singolare di immedesimarsi nei suoi personaggi femminili, nel rendere naturali e credibili le voci delle protagoniste dei suoi romanzi che sono sempre in primo piano, lasciando gli uomini nell’ombra. Non fanno una bella figura, inoltre, gli uomini di questo romanzo- né il padre naturale di Ellinor, né il suo primo marito, né Georg, bravo ma scialbo, e neppure i due figli di Georg, arrogante uno, superficiale l’altro.
     “Spesso sono felice” è un romanzo lieve anche se è la storia di due matrimoni non del tutto felici, è un libro che si legge con piacere e facilità, con la curiosità legittima di scoprire il nodo delle relazioni famigliari dei personaggi, ma che poi si dimentica con altrettanta facilità.




lunedì 30 gennaio 2017

Jens Christian Grøndahl, “Quattro giorni di marzo” ed. 2011

                                             vento del Nord
          romanzo 'romanzo'
          il libro ritrovato

Jens Christian Grøndahl, “Quattro giorni di marzo”
Ed. Marsilio, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg. 381, Euro 20,00

    Nessuna di loro parla. Ingrid cerca di vedersi da fuori, accanto a Berthe e a Ada. E’ un quadro: tre donne davanti a un bovindo su Esplanaden. Non le sembra di vedere tre generazioni: piuttosto tre stadi di età, di affievolimento, d’impotenza. A paragone di sua madre e di sua nonna è ancora giovane, certo, ma ha superato il momento in cui la vuota apertura delle possibilità è più grande e promettente.

   Quattro giorni. Solo quattro giorni di inizio primavera a Copenhagen. E’ brevissima la durata della vicenda che inizia quando Ingrid Dreyer, quarantotto anni, affermato architetto in uno studio famoso, viene raggiunta da una telefonata a Stoccolma, dove si trova per lavoro. Un funzionario di polizia la informa che suo figlio, il quindicenne Jonas, è stato fermato mentre, insieme ad alcuni amici, prendeva a calci un ragazzo steso a terra.
Jonas, il suo Jonas prendeva a calci in testa un ragazzo arabo? Era andato il nonno paterno a riprenderselo alla sede della polizia, visto che non era stato possibile raggiungere lei per telefono. Ingrid cerca di prendere il primo aereo per tornare a casa. Overbooking. Prende il treno.
E intanto la sua mente rimugina, ricorda, incomincia a scavare nella sua vita- e non solo, ma anche nella vita della madre e della nonna- per cercare di capire dove qualcosa sia andato storto, quali fossero i segnali che lei non ha colto. Come si sia potuti arrivare a questo. In questi quattro giorni, dal giovedì alla domenica, Ingrid incontra il figlio, viene insultata da lui, va a cena a casa del fratello, passa il fine settimana con l’amante, visita la nonna e poi la aspetta una tremenda sorpresa. In realtà a volte è difficile per il lettore ricordare che si tratta ‘solo di quei quattro giorni’, perché Jens Christian Grøndahl rivela un’abilità stupefacente nella costruzione temporale del romanzo. Narrare la storia di tre generazioni di donne in ordine cronologico è facile. Ben altro è raccontare la stessa storia passando incessantemente dal presente al passato, da una protagonista all’altra, inserendo i tasselli mancanti ad un ampio quadro che risulta alla fine perfetto, senza mai perdere il filo e senza mai confondere il lettore. Presentando spezzoni di vita da angolazioni diverse- nessun uomo è un’isola, ognuno vive un’esperienza condivisa in maniera personale e differente dall’altro. E forse la verità, se esiste, è un insieme di tutti i punti di vista, qualcosa di complesso e sfaccettato.
    Ad esempio: qual era la vera personalità del poeta Per Weincke, secondo marito di Ada, la nonna di Ingrid? Era uno schizofrenico ubriacone (come Ada confessa lacrimosamente una sera) o era l’uomo sensibile e dolcissimo che aveva fatto da padre a Berthe e da nonno a Ingrid, pur non essendolo? Era un grande poeta o era stata Ada a completare le sue poesie?
Sono tre donne formidabili, Ada, Berthe e Ingrid. Ada, scrittrice dimenticata, famosa per un libro osé in cui parla degli amanti che ha avuto, che si vanta di un incontro con Karen Blixen, l’icona a cui si sforza di assomigliare.
Karen Blixen
Berthe, figlia trascurata dalla madre, cresciuta in collegio, che pianta il marito fedifrago e la figlia per cercare se stessa a Roma (diventa giornalista letteraria). Ingrid, infine, che- contro quello che vuole- ricalca le orme di madre e nonna, lasciando un marito distrutto e un bambino che non sa capacitarsi del crollo del suo mondo, per diventare l’amante-ombra di un uomo molto più vecchio di lei.
      Si può tramandare un destino? Esiste un’imitazione inconscia di comportamenti? L’essersi sentita poco amata dalla propria madre non dovrebbe portare ad uno sforzo opposto- a colmare d’amore i figli? E’ legittimo perseguire la felicità, sia essa rappresentata da un nuovo amore o da ambizioni di carriera, a prezzo della sofferenza di chi ci sta vicino? E ne vale la pena, alla fine dei conti?
Sono tutti quesiti che arrovellano Ingrid, dopo quanto è accaduto al figlio. Non sono
mai posti apertamente nel romanzo (molto bello) di Grøndahl, ma, proprio per questo, ci tormentano nella ricerca di una risposta.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




domenica 29 gennaio 2017

PP Wong, “La vita secondo banana” ed. 2017

                                         Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                 romanzo di formazione
       FRESCO DI LETTURA


PP Wong, “La vita secondo banana”
Ed. BaldiniCastoldi, trad. Raffaella Patriarca, pagg. 308, Euro 16,00


     Gialla fuori e bianca dentro. Aspetto cinese e interno inglese. E’ così che si sente, come una banana, Xing Li, la deliziosa dodicenne protagonista e io narrante del romanzo “La vita secondo banana” della scrittrice sino-inglese PP Wong. La mamma di Xing è morta da poco, bruciata nello scoppio del forno di un ristorante dove si era fermata mentre andava a comprare delle candele: era il giorno del compleanno di Xing. Il padre è morto tanto tempo prima, Xing non ha fatto in tempo a conoscerlo. Il fratello di Xing, Lai Ker, ha quattro anni più di lei e Xing lo ama moltissimo: è tutto quello che è rimasto della sua famiglia. Perché per Xing la ricca nonna Wu con cui lei e il fratello vanno a vivere non è famiglia. La nonna Wu non aveva più voluto vedere la sua mamma quando questa aveva deciso di sposare il suo papà, e poi è severa, dura, dispotica. In poche parole, antipatica. Nella grande casa della nonna abitano anche zia Mei che fa l’attrice- e deve sopportare lo scherno della nonna- e lo zio Ho con i suoi comportamenti strani- che cosa ha di preciso lo zio Ho che vive rinchiuso nella sua enorme stanza bianca, che la nonna tratta come un bambino e di cui Xing ha paura?
    Non è facile la vita per Xing a Londra. Prima c’era la mamma che attutiva gli scontri con il mondo, la mamma sempre pronta a dare spiegazioni, la mamma che le diceva “ti vorrò bene per sempre e una settimana in più”, la mamma che non preparava di certo i pranzi che cucina il cuoco della nonna, ma che importava?, era sempre così allegra anche quando mancavano i soldi per arrivare a fine mese. Non c’è giorno, non c’è pagina in cui Xing non pensi e non parli della mamma. Prima Xing andava in una scuola meno ‘buona’ di quella dove la ha iscritta la nonna, ma là, almeno, non c’era nessuno come Shil, la bella ragazza con il suo codazzo di amiche che tormenta Xing, storpia il suo nome, la chiama Muso Giallo, insulta i cinesi, si fa beffe di quello che mangia- è la quintessenza dell’ignoranza del bullismo. Per fortuna Xing trova un amico in Jay, un altro ‘straniero’ come lei, figlio di una cinese e di un giamaicano, con le treccioline nei capelli e uno straordinario orecchio musicale.

      “La vita secondo banana” è un originale e straordinario romanzo di formazione al femminile che affronta temi attuali- quello dell’identità, prima di tutto, con una Xing divisa tra il suo desiderio di sapere di più sulla cultura cinese, sulla storia della sua famiglia originaria di Singapore e il rifiuto di quella stessa cultura quando è la nonna a forzarla su di lei, quello del bullismo e della violenza giovanile, quello della xenofobia, infine, che nasconde la paura del confronto- e nello stesso tempo è anche una saga famigliare. Con un umorismo delicato venato di tristezza Xing si addentra nei segreti di famiglia- la malattia dello zio Ho, il personaggio misterioso del nonno burlone che credeva fosse morto, la rottura dei rapporti tra la nonna e la mamma, le lettere che la nonna ha scritto per tutta la vita all’amico di Singapore.  Se la mamma occupava tutti i pensieri di Xing all’inizio, ad un certo punto qualcosa cambia e la nonna ne prende il posto, quando Xing scopre che anche la nonna ha un cuore ed è un cuore grande, che la nonna ha sofferto quanto lei e più di lei, molto tempo prima di lei, cercando il suo posto in una nuova società che la rifiuta. In una lettera all’amico, la nonna scriveva: “Mi sento così sola qui. Con chi posso parlare? Chi può capire? Qui non c’è nessuno di Singapore. Quando chiedi a qualcuno: “Come stai?”, lui risponde: “Bene, grazie”. Così anch’io dico che sto bene, ma non è vero. Non so più chi sono né perché sono qui.”


     La voce spontanea di Xing che ci parla di perdita, di dignità calpestata, di paura, di amore fraterno, di un’amicizia che si trasforma in un amore in boccio, non si dimentica. Un ottimo primo romanzo di una scrittrice che assomiglia al suo personaggio.



venerdì 27 gennaio 2017

holidays gennaio-febbraio 2017






Sono in partenza. Non so se riuscirò a leggere e neppure se riuscirò ad aggiornare il blog con gli articoli già preparati- dipenderà dalla connessione. Ma tornerò, abbiate pazienza.

capodanno cinese 2017


L'anno del gallo rosso



Il capodanno cinese 2017 inizia il 28 gennaio e termina tra il 15 e il 16 di febbraio. Si celebra per augurare un anno ricco di fortuna e prosperità e per festeggiare l'anno di lavoro appena terminato. Le città si tingono di rosso, colore di buon auspicio, anche le buste contenenti doni in denaro sono rosse. E ovunque si vedranno decorazioni con il gallo, simbolo del nuovo anno. I nati sotto il segno del gallo hanno fascino, sono eloquenti, hanno fortuna in amore e negli affari. Secondo l'oroscopo orientale l'anno del gallo sarà ricco di eventi memorabili.





Ye Zhaoyan, “Nanchino 1937” ed. 2004

                                                       Voci da mondi diversi. Cina
               love story  
              il libro ritrovato

Ye Zhaoyan, “Nanchino 1937”
Ed. Rizzoli, trad. Nicoletta Pesaro, pagg. 409, Euro 17,00


     “Una storia d’amore”, dice il sottotitolo del romanzo dello scrittore cinese Ye Zhaoyan. Ma il titolo del romanzo, “Nanchino 1937”, ci mette immediatamente sull’avviso: quella data, nella vecchia capitale del governo nazionalista, significa solo una cosa, la strage compiuta dai giapponesi. Sappiamo allora che questa non può essere una storia d’amore felice. C’è qualcosa di patetico e di ridicolo nella figura del personaggio principale, Ding Wenyu, un dandy cinese. Trentottenne, con una fama di libertino, è noto per le sue stranezze: figlio unico viziato, ha studiato all’estero, parla perfettamente parecchie lingue europee oltre al giapponese, insegna all’università, ha sposato la donna che il padre ha scelto per lui sperando che gli dia un erede. Nel suo diario Ding Wenyu segna la data del 1° gennaio 1937 come un giorno speciale: ha conosciuto la signorina B. durante “un insopportabile matrimonio”. Soltanto che era proprio il “suo” matrimonio, della bella Yuyuan, di cui Ding Wenyu si innamora a prima vista.
Inizia così la tragicommedia di un corteggiamento senza speranza e quello che è strano è che a lui non importa che lei ricambi il suo amore: è un’ossessione amorosa, dopo tutto lui non la conosce neppure, ma gli basta che lei gli dia il permesso di amarla. C’è un precedente che lo rende sospetto agli occhi della famiglia della ragazza: vent’anni prima l’allora adolescente Ding Wenyu si era innamorato della sorella maggiore di Yuyuan, già sposata e con due bambini. Il ragazzo senza esperienza è diventato un uomo che è un maestro nel ricercare il piacere nei bordelli, ma nell’amore che prova ora ci sono lo stesso fanatismo e la stessa intensità. Sono le lettere che conquistano Yuyuan, anche se lei non risponde mai, non ne accusa mai ricevuta. Dapprima Ding Wenyu gliele fa recapitare a mano, poi le invia in duplice copia, di cui una per posta normale, prima una ogni tre giorni, poi una al giorno, parecchie in un giorno. Scrive in ogni momento della giornata, come se parlasse continuamente con lei. Amor che a nullo amato amar perdona, è difficile per Yuyuan non lasciarsi conquistare, si sente amata e protetta, finisce per pensare che è quello di cui ha bisogno. Anche perché il marito la tradisce e lei cerca invano di ingelosirlo con le lettere di Ding Wenyu.
la strage di Nanchino
Una lieve sensazione di irrealtà aleggia su questa storia d’amore; mentre Ding Wenyu cerca ogni pretesto per incontrare Yuyuan, litiga con la moglie per il divorzio, mette incinta la moglie perché solo se lei darà un erede alla famiglia Ding lui sarà libero, i giapponesi avanzano e la Cina apre un secondo fronte a Shanghai. Il tempo dell’amore scorre in maniera diversa da quello della guerra, è già agosto, Pechino è in mano nemica, iniziano i bombardamenti su Nanchino, il marito di Yuyuan fa una morte da eroe. Si piange per lui, ma ha lasciato libero il campo. Nanchino cede al nemico, Yuyuan cede al suo ammiratore.

Ma Shakespeare ci ha insegnato che l’amore è grande solo se è un amore tragico, e, come per Romeo e Giulietta, c’è solo una notte d’amore per i due innamorati. E il romanzo si chiude con mitragliatrici che sparano, nel sole morente sventola la bandiera del Sol Levante.  E’ proprio in questa tensione tra amore e morte, tra la lievità del corteggiamento e la drammaticità degli eventi che si preparano, il fascino di questo romanzo dalla struttura tradizionale che è stato accolto in Cina come un capolavoro della letteratura contemporanea.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net



                                                                                            


giovedì 26 gennaio 2017

Giorno della Memoria 27 gennaio 2017




Dedichiamo un minuto di silenzio a tutte le vittime della furia nazista.

Eva Heyman, “Io voglio vivere. Il diario di Eva Heyman”, a cura di Agnes Zsolt ed. 2017

                                                    Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
                                                                 Shoah
         testimonianze
        FRESCO DI LETTURA


Eva Heyman, “Io voglio vivere. Il diario di Eva Heyman”, a cura di Agnes Zsolt
Ed. La Giuntina, trad. Andrea Rényi, pagg. 150, Euro 12, 75

    Esce un grido dalle pagine del diario di Eva Heyman- Io voglio vivere. Sono parole che ripete più di una volta, più di un giorno quando la paura del futuro è una cosa concreta. Una voce di bambina che attraversa più di settanta anni, quanti ne sono passati dal 30 maggio 1944, data dell’ultima pagina del suo diario. La data ci dice già tutto. Eva Heyman, ebrea ungherese, fu deportata nel campo di concentramento di Auschwitz dove morì il 17 di ottobre dello stesso anno. Aveva tredici anni.
    Come Anna Frank, a cui il nostro pensiero corre subito, anche Eva inizia a scrivere il diario nel giorno del suo compleanno che cadeva in febbraio. A differenza di Anna, nascosta nelle stanze di una soffitta di Amsterdam, la reclusione nella casa sovraffollata del ghetto di Nagyvárad (l’attuale Oradea in Romania) dura poco per Eva. Un mese in cui avrà continuato a sperare che le voci che giravano sulla sorte degli ebrei non fossero vere, che la Germania fosse definitivamente sconfitta, che lei potesse continuare a vivere. “Non voglio morire, voglio vivere anche se di tutto il distretto rimanessi soltanto io qui. Aspetterei la fine della guerra in una cantina o in una soffitta, o in un buco qualsiasi; mio piccolo Diario io mi lascerei baciare dal gendarme dagli occhi storti che ci ha portato via la farina, basta che non mi uccidano, che mi lascino vivere!”. Il diario finisce così, con ancora qualche riga in cui scrive che hanno lasciato entrare Mariska, la cuoca fedele, a cui avrebbe affidato il suo prezioso quaderno. E Mariska lo avrebbe conservato e consegnato ad Agnes Zsolt, la madre di Eva che invece sopravvisse alla guerra.

    Ci commuovono sempre, le voci del passato. Soprattutto se sono state fatte tacere a forza, se non hanno potuto raggiungere la pienezza, se sono scomparse in una maniera atroce, se, in qualche modo, l’intero mondo è responsabile per la loro morte. La voce di Eva è fresca, genuina. Guardiamo la sua foto con le trecce e pensiamo che la voce che echeggia nelle pagine le si addice. Inizia con piglio allegro, scopriamo a poco a poco delle zone buie nella sua vita. La madre, che lei chiama per nome, Agi, si è separata dal padre di Eva e si è risposata con il giornalista e scrittore Béla Zsolt. Mentre Eva veniva affidata ai nonni, per un certo periodo la madre e il nuovo marito hanno vissuto a Parigi, per tornare poi a Nagyvárad. Eva si era sentita abbandonata. Nelle sue parole la naturale spensieratezza di una tredicenne è smorzata a tratti dalle ombre sul suo cuore di bambina con tanti nonni, con due padri ma con una madre che- lei lo avverte con chiarezza- ama più il secondo marito che la figlia. Poi, nel giro di tre mesi, la situazione precipita, il rombo della guerra si fa più vicino, i segnali premonitori aumentano e le restrizioni pure. La bicicletta rossa di Eva viene requisita, a nulla valgono le suppliche della madre e le lacrime di Eva. In una qualche maniera quella bicicletta rossa vale più di tutto, più di tutti gli altri beni che la famiglia dovrà consegnare. E’ l’infanzia stessa che viene requisita. E’ con la bicicletta rossa che Eva incomincia a morire.

   Eppure- meraviglia della giovinezza- c’è ancora spazio per l’amore, nonostante tutto. Come Anna per Peter, anche Eva prova un sentimento che è la sperimentazione dell’amore per Pista Vadas. Adesso Eva pensa di meno a Marta, l’amica il cui ricordo costellava le pagine del diario, il cui nome ricorreva con frequenza pari a quella con cui citava i suoi famigliari. Il pensiero di Marta era sempre associato al desiderio di vivere, di non finire come lei, prelevata mentre gustava una merenda di fragole e panna. Il pensiero di Marta è rimosso, adesso che Eva deve concentrarsi su se stessa per trovare la forza di andare avanti.
    Un piccolo libro da leggere- ci tormenterà il ricordo della bicicletta rossa di Eva e delle fragole rosse di Marta.



     

mercoledì 25 gennaio 2017

Monika Held, “La notte più buia” ed. 2013

                                             Voci da mondi diversi. Area germanica
                    Shoah
                il libro ritrovato

Monika Held, “La notte più buia”
Ed. Neri Pozza, trad. Riccardo Cravero, pagg. 279, Euro 16,50
Titolo originale: Der Schrecken verliert sich vor Ort

    Quella sera Lena fece una scoperta che la irritò. Le storie che raccontavano gli amici di Heiner iniziavano a sfrangiarsi, erano sul punto di staccarsi dalle persone a cui appartenevano, si mescolavano e si completavano a vicenda. Un giorno zia Zofia avrebbe fatto parte della storia di Stan, che nemmeno conosceva Zofia, ma sarebbe stato convinto di essere stato presente quando l’avevano fustigata. Un giorno Heiner avrebbe raccontato del bunker della fame come se ci fosse stato lui e Leszek dell’albero parlante come se sul ramo scricchiolante ci si fosse seduto lui a urlare al cielo il suo numero e non Mietek. Era un furto? Oppure tutte le storie appartenevano a tutti perché nessuna andasse perduta?

   Francoforte, giugno 1964. Dopo un’udienza del Processo Auschwitz un uomo si accascia nel corridoio. Una donna lo soccorre. E’ l’inizio di una storia d’amore bellissima e tormentata- non potrebbe essere diversa perché lui, Heiner Rosseck, è un uomo tormentato, vittima di ricordi che non possono essere relegati nel passato. Perché Heiner è vissuto per questo, è sopravvissuto ad Auschwitz per portare testimonianza, perché tutti sapessero, perché giustizia venisse fatta. Per poi trovarsi davanti un avvocato difensore che rivolge domande che suonano offensive per chi era ‘là’- c’era una porta o c’era una tenda? Che ora era? Che giorno era? c’era una porta o c’era una tenda? A destra o a sinistra? Come fa ad essere sicuro?- o per dover ascoltare imputati assassini che sostengono di aver compiuto un atto di misericordia, accelerando la morte di uomini che erano già in punto di morte. Che si sentono non colpevoli ‘davanti a Dio e davanti agli uomini’. Inoltre, erano gli ordini, agli ordini si ubbidisce.
Auschwitz dall'alto
   Heiner Rosseck aveva ventidue anni quando era stato arrestato e portato ad Auschwitz come detenuto politico. La sua vita si sarebbe divisa in un ‘prima’ di giovinezza, di amore e di lotta contro il nazismo, un ‘là’ di orrore infinito, un ‘dopo’ difficile perché nessuno voleva sentire quello che lui aveva da raccontare, nessuno ci credeva, perfino la moglie lo aveva lasciato portandosi via la loro figlia: non si può vivere con un uomo che continua ad abitare ad Auschwitz, nella sua mente e nei suoi incubi. L’incontro con Lena, l’interprete che è nata a Danzica, una tedesca sui generis, alla fine. Riuscirà a funzionare il loro amore?

   Ne “La notte più buia” Monika Held è riuscita in un’impresa non facile: darci qualcosa di nuovo sui campi di sterminio, soprattutto sull’esperienza umana di chi ci ha vissuto ed è vissuto per raccontarlo, soprattutto sull’impossibilità di dimenticare, di venire a patti, di riprendere il corso di una vita che non potrà mai più essere la stessa, perché tutto, proprio tutto- la propria fisicità, il linguaggio, la natura- è stato cambiato radicalmente. Una rampa non è una semplice rampa, fare una selezione non è semplicemente scegliere, perfino fare una doccia non è innocuo. Heiner Rosseck è un uomo che amiamo, insieme ai suoi incubi. Un personaggio che cerchiamo di capire, insieme a Lena, altro personaggio straordinario che lotta con se stessa per non soccombere davanti all’impossibilità di pareggiare la bilancia: che cosa mai ha di straordinario la sua vita, paragonata a quella di Heiner? Lena lotta perché Heiner non smetta di lottare- ascolta all’infinito le sue storie che incominciano con ‘guarda, Lena’, le confronta con quelle che sente dagli amici di Heiner per cui prova un filo di gelosia. E’ qualcosa di unico, quello che unisce Heiner agli uomini conosciuti nel campo. Si sono salvati la vita l’un l’altro, resistendo perché l’altro non cedesse. E’ un sentimento che va al di là dell’amore, e Lena se ne rende conto quando lei e Heiner decidono di partire, di tornare in Polonia, di andare di nuovo ‘là’ per esorcizzare le ombre, per vincere la paura- “Non c’è più paura in questo luogo” è il titolo originale del libro- e incontrano i vecchi amici con cui non c’è bisogno di spiegare nulla e le loro storie si mescolano, quasi che l’uno si appropriasse della storia dell’altro.
Una, in particolare, è sconvolgente. La storia buia di una delle tanti notti buie che avrebbe dovuto invece scintillare di luci: le SS avevano eretto un grande albero di Natale nella piazza del campo e avevano fatto uscire tutti i prigionieri. Poi avevano ordinato di andare a prendere quelle larve di uomini conosciuti con il nome di Muselmann e di depositarli ai piedi dell’albero. Infine, con una temperatura di -34°, avevano ordinato che venissero innaffiati d’acqua: erano diventati pacchetti di Natale di ghiaccio.
   Questo è il romanzo di una tragedia che non dobbiamo dimenticare, ma è anche un romanzo che parla d’amore e della forza dell’amicizia, più grande ancora di quella dell’amore, la fiamma che riesce ad illuminare perfino la notte più buia.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



   

martedì 24 gennaio 2017

Barbara Vine, “Il Minotauro” ed. 2006

                                 Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
         noir
         il libro ritrovato


Barbara Vine, “Il Minotauro”
Ed. Fanucci, trad. Eleonora Federici, pagg. 297, Euro 16,50

   I lettori appassionati di genere ormai sanno non solo che Barbara Vine e Ruth Rendell sono la stessa persona, ma anche che Barbara Vine e Ruth Rendell sono in realtà due identità diverse nella stessa persona, una sorta di Dottor Jekyll e Mr. Hyde, se non fosse per i connotati specifici di bene e male che questa spaccatura di personalità ha assunto. Che certamente il romanzo dell’una non è scambiabile con quello dell’altra: Ruth Rendell scrive thriller eleganti e i romanzi di Barbara Vine sono dei noir eleganti, un’interpretazione e un proseguimento del romanzo gotico inglese, con un marcato interesse per psicologie distorte o con turbe della psiche causate da traumi o esperienze di vita.
    Si intitola “Il Minotauro” il nuovo romanzo di Barbara Vine, alludendo al mitico mostro con corpo di uomo e testa di toro che Minosse, vergognandosi di questo figlio nato da un rapporto adulterino della moglie Pasifae, aveva fatto rinchiudere nel labirinto costruito apposta per lui. E c’è un personaggio simile al Minotauro nel libro di Barbara Vine: un uomo sulla quarantina che viene trattato dai familiari come se fosse un bambino e tuttavia è un genio in matematica, che non ha nessun rapporto con il mondo esterno, che non sopporta di essere toccato. E c’è pure un singolare labirinto nel libro, non costruito all’esterno ma all’interno della casa, con barriere separatorie di libri invece che di siepi.

    Una vecchia casa inglese sprofondata nella campagna dell’Essex, una madre anziana con quattro figlie e un unico figlio maschio, un’eredità che andrà tutta all’uomo chiaramente ammalato, a meno che…Questi sono gli elementi della trama, niente di nuovo, trasformati tuttavia dalla scrittura della Vine che adotta un doppio filtro narrativo: il primo è dato dalla distanza temporale, perché gli eventi avvenuti sul finire degli anni ‘60 vengono raccontati nel presente, richiamati alla memoria da un incontro occasionale. Sistema ottimo per permettere alla scrittrice una certa vaghezza, un’osservazione di quanto siano cambiati i costumi, gli usi di vita nonché la morale delle persone. Persino la giustificata ignoranza su quale sia la malattia di John Cosway che il lettore, memore del film “Rain man” e di romanzi recenti come quello di Mark Haddon, riesce presto a identificare.
Il secondo filtro è il narratore esterno, la narratrice in questo caso: la storia è raccontata da Kerstin Kvist, ventiquattrenne svedese che accetta il lavoro come infermiera di John Cosway per restare in Inghilterra, vicino al ragazzo di cui è innamorata. L’occhio osservatore di Kerstin ha il vantaggio della giovinezza, dell’estraneità e quindi di abitudini diverse, per registrare le strane alchimie famigliari e individuare anomalie nel comportamento della madre e delle sorelle. In più, le sue conoscenze in campo medico la fanno sospettare che il problema di John non sia la schizofrenia e, ancora, Kerstin tiene un diario- in svedese- che risulterà utilissimo alla polizia.

     Come gli altri libri di Barbara Vine, anche “Il Minotauro” è un romanzo di atmosfere e di indagine psicologica, leggermente claustrofobico come i romanzi di Agata Christie, stilisticamente perfetto. Interessante ricordare che anche Ruth Rendell, come Agata Christie, è stata insignita di un titolo onorifico, diventando Baroness Rendell of Babergh.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


lunedì 23 gennaio 2017

Massimiliano Boni, “Il museo delle penultime cose” ed. 2017

                                                       Casa Nostra. Qui Italia
       Shoah
       FRESCO DI LETTURA

Massimiliano Boni, “Il museo delle penultime cose”
Ed. 66th and 2nd, pagg. 352, Euro 18,00

     Roma. Potremmo pensare che sia la Roma dei nostri giorni, poi qualche piccolo indizio, uno dopo l’altro, ci fa cambiare idea. C’è una donna presidente, la solita schermaglia elettorale con due aspiranti alla carica di primo ministro, Renzi (ingrassato) e Cacciani. Un’atmosfera di inquietudine aleggia su Roma, si insinua nelle stradine del ghetto, affiora nelle chiacchiere e nelle dicerie. Il vessillo del partito che vince ha cambiato colore ma ne riconosciamo le tendenze politiche- Cacciani sfoggia una sciarpa arancione. Dei droni solcano il cielo, degli orwelliani sound trees sono disseminati nella città- sono un tocco (solo un tocco) di ucronia che, in aggiunta ad un conto degli anni dei personaggi, ci aiuta a concludere che siamo in un futuro vicino, tra il 2020 e il 2030.

   Pacifico Lattes è vicedirettore del Museo della Shoah di Roma. Evidentemente il progetto in discussione da anni è stato approvato, il parallelepipedo nero con i nomi dei deportati della razzia del 16 ottobre 1943 che si rincorrono sulle pareti esterne sorge nei giardini di Villa Torlonia. Pacifico Lattes ha raccolto le testimonianze di tutti i sopravvissuti ai campi, il suo lavoro si è concluso con una mostra su una donna ebrea che è appena morta in America e su un’italiana che aveva quattordici anni all’epoca e che aveva scritto un diario dei giorni che aveva passato nascosta. Pacifico crede di aver terminato il suo lavoro. Crede di potersi lasciare alle spalle la Shoah con i suoi orrori. Crede di poter tornare a godersi la famiglia, la moglie e i due bambini. E invece spunta fuori il parroco di una zona periferica di Roma, dice che nel ricovero per anziani della sua parrocchia c’è un uomo ultranovantenne che non ha mai voluto dire nulla di sé ma che ha chiesto di avere un funerale ebraico, quando verrà il momento. Forse questo Attilio Amati è ebreo, una volta ha parlato di treni, ha una cicatrice sul braccio dove dovrebbe esserci il tatuaggio del numero, forse è un sopravvissuto. L’ultimo dopo quelli che si pensava fossero gli ultimi.

     Il motore del romanzo “Il museo delle penultime cose” di Massimiliano Boni è il mystery da risolvere, la ricerca dell’identità di Attilio Amati che non risulta in nessun archivio. Inoltre non risulta neppure che un Attilio Amati fosse tra i ragazzini rastrellati dal ghetto di Roma e caricati sul treno della morte. Il nodo focale del romanzo, tuttavia, è un altro, è il valore inestimabile della memoria che si apprezza maggiormente nel momento in cui sono scomparsi dalla scena i diretti testimoni, la certezza della memoria che deve essere tutelata a salvaguardia del passato, contro l’avanzare del revisionismo, della negazione che la realtà dei campi sia esistita e che il genocidio abbia avuto le immani proporzioni che ha avuto. Ogni minimo frammento di testimonianza deve essere preservato gelosamente, per questo e perché le vittime non siano soltanto passate su questo mondo come il fumo dei camini di Auschwitz. E questa necessità è sempre più urgente in un’Italia (solo l’Italia?) in cui serpeggia un antisemitismo che ricorda le prime avvisaglie del nazismo in Germania. Il personaggio di Pacifico, poi, vuol dirci qualcos’altro ancora, delineato com’è, in netto contrasto con Marco, il capo del Museo. Bello il personaggio di Marco, un ex partigiano che non è ebreo e che, nella lotta coraggiosa per portare la memoria alla conoscenza di tutti che gli costerà la vita, è come uno dei Giusti che hanno rischiato la loro, di vita, per salvare anche soltanto quella di un ebreo. Pacifico, che si è sempre rifiutato di visitare un lager, che vorrebbe non dover più sentire raccontare della rampa e della selezione e delle camere a gas, è l’ebreo medio che avverte come un peso la Storia del passato, è ciascuno di noi con l’eterna domanda, ‘ e io, che cosa avrei fatto? chi avrei salvato, dei miei cari, se fossi stato costretto ad una scelta?’.
pietre d'inciampo a Roma
     Tra i tanti libri che puntualmente ogni gennaio sono pubblicati e che troppo spesso sembrano sfruttare la morbosità dell’orrore o indulgere ad un tardivo sentimentalismo, il libro di Massimiliano Boni si distingue perché affronta in maniera originale il problema di come non lasciar sprofondare nell’oblio la tragedia che ha segnato la Storia e la coscienza dell’Europa nel secolo XX.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net



    

sabato 21 gennaio 2017

Parisa Reza, “Giardini di consolazione” ed. 2017

                                                         Voci da mondi diversi. Asia
     la Storia nel romanzo
     FRESCO DI LETTURA

Parisa Reza, “Giardini di consolazione”
Ed. e/o, trad. A. Bracci Testasecca, pagg. 256, Euro 17,00

    1299 del calendario persiano. Gli anni venti del secolo scorso per noi. Talla, dodici anni, sta andando a dorso d’asino dal suo villaggio natale, Qamsar, verso Teheran. Per l’occidente Talla è una bambina, in Iran è già sposa- Sardar l’ha sposata quando lei aveva nove anni ma è tornato solo ora a consumare il matrimonio e a prenderla per portarla nel villaggio dove lui ha lavorato tre anni per potersi permettere una moglie.
Qamsar è il paese delle rose, a Qamsar si respira l’aria delle montagne, ma Qamsar è l’arretratezza. A Qamsar la vita è rimasta immutata nei secoli. Il terrore che coglie Talla quando sente e vede quello che per lei è un mostro rombante ne è la prova. Il ventenne Sardar ride, ma Talla non ha mai visto un’automobile e non può che averne paura. Case primitive, gruppi famigliari chiusi, regole educative di una severità che è crudeltà (la punizione della sorellina di Talla, che a quattro anni bagna ancora il letto di notte, è sconvolgente).
Teheran è la modernità, anche se Talla deve indossare il chador- si abitua presto. La giovane coppia non vive proprio a Teheran, ma vicino, e forse è meglio- il cambiamento sarebbe troppo grande per Talla. Si vive bene a Shemiran, c’è come un filtro per tutte le novità. Che adesso arrivano e sono sorprendenti. Reza Shah vuole mettere l’Iran al passo con l’Europa. Si incomincia dall’abbigliamento- via i chador, no alle donne velate, via i camicioni informi degli uomini, sì alle giacche, sì al chepì. In una società in cui l’individualizzazione passava attraverso il nome del padre, il nuovo censimento obbliga a scegliere un cognome. E incomincia la lotta all’analfabetismo, aprono scuole in ogni paese, una sola classe per tutti ma, per incominciare, va bene.

     “Giardini di consolazione” ci guida nella storia dell’Iran in anni cruciali, dalla svolta radicale e modernizzante di Reza Shah alle simpatie americane di Shah Reza Pahlavi, seguite poi dal diffondersi di idee democratiche e dalla protesta contro la concessione ai britannici dello sfruttamento del petrolio. Le pagine dei giovani inneggianti a Mossadeq, il primo ministro che riuscì a nazionalizzare la compagnia del petrolio, sono il culmine della narrazione. Sono pagine di esaltazione e di sconfitta, di paura e di smarrimento. Parisa Reza, nata a Teheran nel 1965 ed emigrata in Francia con la famiglia a diciassette anni, adotta un doppio punto di vista nella sua narrazione: la coppia Sardar-Talla, che sono e rimangono analfabeti, che vivono ai margini dei grandi cambiamenti (proprio come la cittadina satellite della capitale in cui hanno scelto di vivere) e non li comprendono neppure.
Ma Sardar e Talla vivono di riflesso le esperienze di Bahram, idolatrato figlio unico arrivato dopo tante difficoltà quando Talla veniva già bollata come una donna sterile a cui Sardar aveva il diritto di chiedere il divorzio (ricordate Soraya, l’imperatrice triste da cui lo Shah Reza Pahlavi divorziò perché sterile?). Bahram va a scuola, è brillante, riesce addirittura a far aggiungere altre classi nella scuoletta di paese in modo da poter proseguire gli studi, andrà all’università. Bahram ha successo con le ragazze- e i suoi corteggiamenti, nonché il comportamento delle ragazze in risposta ai suoi approcci, sono una piccola parentesi di costume nel romanzo-, Bahram si interessa di politica, diventa un sostenitore di Mossadeq, Bahram è in pericolo quando Mossadeq viene esiliato.
   E’ la fine delle speranze. Il padre di un amico di Bahram fa un’analisi della sconfitta e ha parole dure che sanno di profezia: “questo paese non conoscerà pace e libertà. Che dobbiamo farci con la libertà quando l’asservimento è così tragico, la tragedia così poetica e la poesia così persiana?”. Perché, quando si parla di iraniani, non si tiene conto dell’ottanta per cento della popolazione, analfabeti a cui nessuno si sogna di chiedere un parere. E, quasi un controcanto delle sue parole, mentre ovunque, nei giardini, si alzano fiamme per distruggere carte compromettenti, mentre si brucia la libertà, Sardar prende la mano di Talla e le dice, “Allah Akbar! Com’è bello il mondo stasera. Cosa chiedere di più?”. Il futuro dell’esilio dello Shah e dell’avvento dell’ayatollah Khomeini è alle porte.
     Un romanzo in cui la grande Storia è raccontata in maniera lieve attraverso i personaggi delle piccole e colorate storie.