Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
il libro ritrovato
Jonathan Safran Foer, “Molto forte, incredibilmente vicino”
Quando uno scrittore è
giovanissimo e si impone all’attenzione con un primo romanzo di un’originalità
geniale, come è il caso di Jonathan Safran Foer, è naturale che si crei
un’atmosfera di aspettativa e di curiosità straordinaria intorno al suo secondo
romanzo, come se si volesse verificare se il precedente successo sia stato un
caso o se il nuovo libro confermi la grandezza dell’autore. “Molto forte,
incredibilmente vicino” è il romanzo che risponde alla domanda, ‘si può
scrivere dopo l’11 settembre?’, un quesito che l’Europa ha già dovuto
affrontare dopo la seconda guerra mondiale ma che è nuovo per gli Stati Uniti.
E la risposta di Foer è la prima bellissima elegia del nuovo millennio. Il protagonista
è un bambino, Oskar Schell, che ha perso il padre nell’attacco terroristico
alle Torri Gemelle.
Tutti gli alunni erano stati rimandati immediatamente a
casa, quel martedì 11 settembre, ed era stato Oskar ad ascoltare i messaggi del
padre registrati sulla segreteria telefonica: il primo era delle 8,52, l’ultimo
delle 10,26. Rassicurante il primo, una voce più ansiosa negli altri, parole
spezzate nell’ultimo. Quando trova nella stanza del padre una chiave in una
busta con su scritto un nome, Black, Oskar decide che andrà a parlare con tutti
i Black dell’elenco telefonico di New York per cercare chi possa dirgli
qualcosa su suo padre, spiegargli che serratura apra quella chiave. Un viaggio
di ricerca, dunque, come già in “Ogni cosa è illuminata”- qui Oskar ha in mano
una chiave, là Jonathan aveva una fotografia, in ogni viaggio ci deve essere
una traccia da seguire e ogni viaggio richiede prima o poi un accompagnatore.
Anche in questo romanzo c’è un vecchio che scorta Oskar, una specie di
sostituto del nonno che è scomparso prima ancora che nascesse il padre di Oskar
per poi riapparire alla fine. E sì, viene spiegato il mistero della chiave, ma
non era poi quello il fine del viaggio, quanto un ingannare la morte, un
trattenere il ricordo, un ancorare una presenza che è il massimo dell’assenza,
perché non c’è stato neppure un corpo da mettere dentro la bara. Oskar è il protagonista assoluto del romanzo, talmente intelligente da risultare a volte irritante, se non fosse che i fuochi artificiali della sua mente creativa si smorzano sempre nel pensiero fisso del padre, e le trovate di Oskar diventano buffe e lui ritorna ad essere un bambino di nove anni che sente spesso le scarpe pesanti (in inglese si dice “sentirsi il cuore nelle scarpe” per dire che ci si sente tristi), che inventa le cose più stravaganti, disegna gioielli, studia il francese, scrive lettere a sconosciuti, ricorda ogni parola che il papà gli ha detto, le storie che gli raccontava, e gli manca, gli manca, preferirebbe che la mamma fosse stata al suo posto. Nella scala degli affetti di Oskar dopo il padre viene la nonna- ed è l’altra storia del romanzo, quella che, senza togliere nulla alla tragedia dell’11 settembre, la inserisce vicino ad altri drammi di vite spezzate e private degli affetti. I nonni di Oskar erano sopravvissuti al massiccio bombardamento di Dresda da parte delle forze alleate, gli unici delle loro famiglie: il nonno non avrebbe più parlato (un rifiuto della parola che ci ricorda quello dell’omonimo di Oskar ne “Il tamburo di latta”) e se ne sarebbe andato da casa, incapace di accogliere un bambino nel suo mondo in macerie. Anche in questo secondo romanzo Foer usa diversi registri di scrittura, cambiando narratore- Oskar, la nonna, il nonno- inserendo fotografie, disegni, pagine interamente bianche o con una sola riga, pagine che sembrano un errore di stampa e sono un’intera macchia di inchiostro sbavato. Il tutto con un effetto composito, quanto mai ricco e affascinante: Joanathan Safran Foer non ci ha certamente deluso con “Molto forte, incredibilmente vicino”.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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