voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
cento sfumature di giallo
INTERVISTA A LAURA LIPPMAN, autrice de “I morti lo sanno”
Abbiamo incontrato Laura Lippman,
autrice di “I morti lo sanno” e famosa negli Stati Uniti per una serie di
romanzi che hanno per protagonista Tess Monaghan, giornalista che è diventata
investigatrice.
Baltimora è l’ambientazione del suo romanzo: che città è Baltimora? E’
l’ambiente adatto per dei romanzi polizieschi?
Persin troppo. Vivo in una delle città più
violente degli Stati Uniti. A Baltimora ci sono 600.000 abitanti e circa
trecento persone all’anno vengono assassinate. Ogni 18 ore qualcuno viene
ucciso, circa un giorno sì e uno no, un po’ più spesso, anzi. A metà di
novembre c’erano già stati 250 omicidi. La maggior parte riguarda il mondo dei
poveri e dei giovani, gente che ha a che fare con la droga o ha la sfortuna di
capitare per caso in quegli ambienti. Chi appartiene alla mia sfera sociale può
vivere tranquillamente, senza essere sfiorato dal dramma, ma i più poveri sono
sempre a rischio. Questa è la mia città, la mia casa, e io scrivo storie di
indagine poliziesca perché, a differenza di molti miei amici, non mi vedo
distaccata da questo mondo: ne faccio
parte e, in un certo senso, vorrei capirlo meglio.
Alla fine del libro Lei parla di un caso simile, di due ragazze
scomparse che però non furono ritrovate, e dice pure che il 1975 era l’anno
giusto per la sua storia: perché?
Volevo scrivere un
romanzo ambientato negli anni ‘70, perché sono gli anni in cui sono nata, per
me era un tempo affascinante di grandi cambiamenti che riguardarono la famiglia.
Era l’epoca in cui per la prima volta si diffuse l’idea che se i genitori non
sono felici, neppure i figli possono esserlo, l’epoca che mise
l’auto-realizzazione in testa a tutto, “il tempo dell’IO”, della compiutezza
del sé. Sì, anche oggi è così, allora era però una ricerca più spirituale e
ideologica, ora si parla di una felicità che dipende di più dal consumismo.
Quando ho costruito la famiglia del romanzo, ho pensato alla generazione un
poco più giovane dei miei genitori, troppo vecchi per godere della libertà
della fine degli anni ‘60, abbastanza per ricordare la Grande Depressione
e lo spirito di sacrificio. Mi sembrava che, in quei genitori, ci fosse un
desiderio inconfessato di essere senza figli, di come poteva essere la loro
vita senza figli, e poi il destino gli mostra che cosa in effetti significhi
essere privati dei figli.
Mi è parso che ci fosse anche una ragione “tecnica” per la scelta del
1975, per poter rendere più ardua l’identificazione della donna che riappare dopo
trent’anni…
E’ vero, adesso le storie
di delitti si basano molto sull’indagine scientifica: io non potrei mai
scrivere quel tipo di romanzi. Apprezzo la scienza ma non penso che serva
veramente nella letteratura, la scienza non può portare avanti la storia.
D’altra parte la maggior parte dei delitti in realtà non vengono risolti dalla
scienza ma da detective in gamba che parlano con la gente. A me piace risolvere
un’indagine come fosse un puzzle. Per esempio, nel caso delle ragazze Bethany:
non potevo semplicemente far sì che un incendio distruggesse la documentazione
delle loro dentature, ad esempio. Per il semplice fatto che, per me, il loro
dentista era “il mio” dentista di quando era ragazzina e non potevo proprio
fargli bruciare lo studio. Ho pensato a mio padre che aveva un’ossessione
contro le radiazioni e si opponeva alle lastre del dentista. E se mio padre era
così, chissà come era Dave Bethany! Dunque, il 1976 era impossibile come anno
perché gli Stati Uniti compivano 200 anni nel 1976 e la gente avrebbe pensato
che uno scrivesse un’allegoria degli USA. Il 1974 era pure impossibile perché
aveva visto la fine della guerra del Vietnam- non volevo nessun anno con degli
avvenimenti a cui non avrei potuto fare a meno di fare dei riferimenti.
Nel 2006 una ragazza austriaca, Natasha Kampusch, rapita all’età di 10
anni, riuscì a fuggire dall’uomo che l’aveva tenuta prigioniera: aveva anche
lei in mente, quando ha scritto il libro?
Natasha Kampusch |
Avevo appena finito di scrivere il mio
libro quando si è diffusa la notizia di Natasha Kampusch e ho letto avidamente
di lei, perché il suo caso non era così diverso da quello del mio romanzo. Ci
fu un altro caso che venne reso noto quando avevo già finito di scrivere il
romanzo, di un uomo che aveva rapito un bambino di dieci anni e lo aveva tenuto
prigioniero. Quando poi il bambino era divenuto troppo “vecchio” per i suoi
gusti e non lo interessava più, aveva preso un altro bambino. Fu allora che il
primo decise che non poteva permettere che succedesse ad un altro quello che
era successo a lui e organizzò la fuga per entrambi. Sono stata una giornalista
per tanti anni e scrivo questo genere di libri perché so che la gente legge di
queste cose terribili che accadono e pensa che a loro non potrebbero mai
accadere. Alcune persone lo fanno in maniera poco umana e comprensiva. Io ho
letto di questi due casi e ho pensato, “può succedere, è così”. Lavoro pensando
che, se uso una grande empatia, le cose che scrivo saranno credibili. Credo
che, se crei un essere umano, un personaggio ben definito, e cerchi di vedere
attraverso i suoi occhi, se hai abbastanza empatia, vedrai le cose giuste.
Oltre al personaggio principale, la donna la cui identità è incerta,
gli altri personaggi sono l’ispettore di polizia, l’avvocato e l’assistente
sociale. Non sono i personaggi tipici del romanzo poliziesco: voleva così mettere
in risalto Heather Bethany perché questa è la “sua” storia?
Avevo in mente un’idea, nello scrivere di
Kevin e di Kay, il detective e l’assistente sociale. Volevo mostrare due
prospettive- riguardo a Kevin, volevo far vedere che nonostante il successo e
la soddisfazione del suo lavoro, lui non cambia molto. Però c’è un breve
momento, durante il party, in cui attacca discorso con Kay, ed è conscio di
parlare con una donna che non lo interessa sessualmente: ecco, ha imparato una
piccola cosa che lo rende diverso. E così Kay, una persona sola che permette al
dramma di riempirle la vita. Kay è una lettrice avida e il suo ruolo è di fare
da guida al lettore, di essere il doppio del lettore, di farlo pensare “questa
è la storia, ma non è la mia storia”.
Quanto all’avvocato, Gloria,
appare anche in altri tre miei libri e non è mai il personaggio principale, può
darsi che lo diverrà in futuro. Ma non mi interessa quello che passa per la
testa di Gloria- è un avvocato che non si lascia toccare dall’emozione nel suo
lavoro.
Il suo romanzo dice anche qualcos’altro a tutti quelli che- me stessa
inclusa- pensano che il passato era meglio del presente, che nel passato non si
doveva essere sempre in guardia come oggi. Pensa che i media concedano troppo
spazio alla criminalità oggi, in modo che sembra che quello sia la cosa più
importante che accada?
Sì, penso che abbiamo
pervertito il nostro attaccamento alla nostalgia. Vivo in una città che è
agganciata alla nostalgia e la nostalgia richiede un’imbiancatura del passato.
Sappiamo di più, ci viene detto di più di quello che accade. Ma, come
giornalista, mi fa infuriare vedere come i media diano importanza a certi
fatti, a scapito di altri. Un esempio: sappiamo tutto della bimba scomparsa in
Portogallo - un caso penoso e tristissimo, ma non certamente più importante
della guerra in Iraq.
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