Voci da mondi diversi. Diaspora armena
genocidio armeno
Sonya Orfalian, “Alfabeto dei piccoli armeni”
Ed.
Sellerio, pagg. 189, Euro 14,00
Trentasei voci. Trentasei quante sono le lettere dell’alfabeto armeno, le voci dei bambini che hanno visto quello che nessun bambino dovrebbe vedere, che sono sopravvissuti al genocidio compiuto nei territori dell’Impero ottomano tra il 1915 e il 1922. Sonya Orfalian, nata in Libia da genitori armeni, ha ascoltato i racconti di quelli che al tempo erano bambini e che ora sono vecchi, o le storie tramandate oralmente ai loro discendenti, perché non cadano nell’oblio ammantate di silenzio. E riporta queste voci al tempo presente proiettandoci indietro, nei giorni, negli anni in cui ebbe luogo questa immane tragedia non ancora del tutto riconosciuta. Fu il primo genocidio del secolo XIX, anche se il termine ‘genocidio’ fu coniato da Raphael Lemkin dopo la seconda guerra mondiale e usato per la prima volta per parlare dello sterminio degli ebrei. Si invoca il ‘mai più’ e invece ne sarebbero seguiti altri, in una lista senza fine- il genocidio del Ruanda, quello in Cambogia, nei Balcani, l’Holomodor degli anni ’30 in Ucraina…
Ho
appena dieci anni e sono giorni che cammino a fatica tra corpi marci che il
tifo ha conquistato. Siamo più di mille persone in cammino…
Avevo una famiglia numerosa. Ora non ho più nessuno.
È la voce di Mariàm, la prima a parlare. I bambini non sanno perché vengono deportati e neppure perché ‘questi turchi assassini stanno distruggendo le nostre case’, tantomeno conoscono il motivo della violenza intorno a loro. Neppure io, quindi, farò riferimento alle cause del genocidio iniziato con i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 (il 24 aprile è il Giorno della Memoria del genocidio e forse dovremmo chiederci perché non sono molti quelli che lo sanno e perché non se ne parli nelle scuole). A Maràm segue Ovsannà (‘due uomini si sono accoltellati per un paio di scarpe di mio padre’, ‘non ho più né padre, né madre, né famiglia’), poi Eghsapèt (‘Siamo in mezzo al deserto, questo deserto si chiama Der Zor…Dove ci portano? Sembra di stare all’inferno), Nvart (‘Quei barbari prendono le ragazze. Le vedo gridare e scappare. Quelli ridono e le violentano davanti a tutti. Poi le uccidono senza pietà. Le sventrano. Tirano fuori le budella. E le lanciano ai cani’).
Sono sempre uguali e sempre diversi, questi
racconti. Parlano di famiglie felici sorprese in momenti diversi della
giornata, buttate fuori dalle loro case, obbligate a camminare nel deserto
verso una meta che era la morte. Parlano di genitori uccisi davanti ai figli,
di neonati appesi agli alberi, di ragazze violentate, di cadaveri gettati nei
pozzi, di fame, di chicchi di grano cercati tra gli escrementi dei cavalli, di
qualche raro atto di generosità e di compassione, di desiderio di morte, di
caldo e di freddo. Parlano di una marcia che aveva di per sé lo scopo di
ammazzare quanta più gente possibile senza sprecare pallottole. Parlano
dell’inferno. E da queste voci riusciamo a delineare il carattere di chi sta
parlando, di chi si fa forza e di chi preferirebbe fermarsi e morire, di chi
vede il nulla nel futuro e chi spera ancora.
È un racconto corale che ci avvince, che ci
stringe il cuore, che ci fa inorridire. Sono storie che raccogliamo per non
dimenticare, storie che abbiamo il dovere di divulgare per non dimenticare,
perché tanta sofferenza e tanto lutto non siano stati invano.
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