Voci da mondi diversi. Francia
Yasmina Reza, “Serge”
Ed.
Adelphi, trad. D. Salomoni, pagg. 186, Euro 19,00
I Popper. Famiglia ebraica francese. Tre
figli: Serge, Jean e Nana (vezzeggiativo di Anna). In questo ordine- il
primogenito Serge, fisico decisamente robusto, incapace di stare a dieta per
più di un giorno, un po’ gigione, sempre sopra le righe, un po’ dispotico,
forte del diritto della primogenitura; Jean, il narratore, da sempre l’ombra
del fratello maggiore, quello che ha il compito di paciere; Nana, la sorella
più piccola coccolata da fratelli e genitori, ha sposato un uomo giudicato non
alla loro altezza dalla famiglia e oggetto di continue frecciate.
Conosciamo i Popper quando sono all’inizio della mezza età, con figli già adulti. Conosciamo le ex-mogli e le mogli, le compagne e le amanti, i figli loro e quelli delle loro compagne, in una sequenza di scene disordinate e vivaci, fatte di molti dialoghi che ci rivelano il loro carattere meglio di qualunque altra cosa, aprendo sipari su ricordi del passato e scene di vita presente. Serge si intromette ovunque, è sempre Serge a dettare legge- solo la sua compagna, offesa con lui per un suo velleitario tradimento, riesce a tenergli testa.
Il nodo centrale di questo quadro di
famiglia è una visita ad Auschwitz, organizzata da Nana, contro il parere di
Serge. Saranno in quattro ad andare, i tre fratelli e la figlia di Serge. Nana
lo reputava essenziale, visitare il luogo dove sono morte persone della loro
famiglia insieme a milioni di altri ebrei. La visita sarà un fallimento. Perché
non sono preparati alla dissacrazione del campo, alla presenza di orde di
turisti ciarlieri e irrispettosi, vestiti come per una vacanza al mare,
occupati a farsi selfie, per niente commossi o inorriditi dalle ombre del
passato. Difficile dissociarsi da questa atmosfera da pic-nic. In più, Serge
sembra boicottare quella che considerava una spedizione assurda e inutile.
Yasmina Reza è un’acclamata drammaturga e la consuetudine a scrivere opere teatrali si avverte nelle pagine del romanzo. Perché c’è una spontaneità e una brillantezza negli scambi di battute tra i fratelli che reggerebbero benissimo delle scene sul palcoscenico. Non c’è mai un calare di tono, non c’è stanchezza, le descrizioni sono minime, a noi lettori sembra di seguire con gli occhi della mente un palleggio da un giocatore all’altro, e se uno lascia cadere la palla, viene immediatamente sostituito da un altro giocatore. Con umorismo e un lieve sarcasmo è messa a nudo la dinamica dei rapporti famigliari che- lo sappiamo bene- vengono impostati durante l’infanzia e poi subiscono ben pochi mutamenti. C’è un affetto di fondo che non è messo in discussione, ci sono rivalità e gelosie impossibili da sconfiggere, e c’è un fronte comune davanti alle difficoltà serie o all’insorgere di una malattia.
Quello che piace è l’atteggiamento
scanzonato nei confronti di tutto- la vecchiaia, la senilità, la morte, il
cancro, l’eterna mancanza di soldi, i tradimenti di compagni e compagne. Forse
è questo il segreto per affrontare la vita e andare avanti, nonostante tutto.
Auschwitz compreso. Perché, qual è l’atteggiamento giusto da tenere davanti a
quanto successo ad Auschwitz, che va al di là di ogni possibile immaginazione?
È questo inimmaginabile che impedisce ai visitatori di portare il dovuto
rispetto? È il sentirsi obbligati a visitare un luogo di tragedia?
C’è un personaggio emblematico nel
romanzo. È quello del bambino Luc, figlio di una ex compagna di Jean, forse
autistico. Un bambino chiuso in un suo mondo che sembra distaccato da tutto e
da tutti. È l’unico a non essere toccato dalle frecciate dei Popper, fa pensare
all’idiota dostojevskiano, al di sopra del male e delle brutture.
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