Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
cento sfumature di giallo
Ruth Ware, “Il giro di chiave”Ed.
Corbaccio, trad. V. Galassi, pagg. 348, Euro 16,90
Ruth Ware si conferma come maestra del
suspense con il nuovo romanzo “Il giro di chiave” ( di lei abbiamo già letto
“La donna della cabina n.10” e “L’eredità di Mrs. Westaway”). L’allusione del
titolo è chiarissima e la trama scorre sulla falsariga de “Il giro di vite” di
Henry James, rivisitandolo e adattandolo ai nostri tempi tecnologici.
Rowan scrive ad un famoso avvocato dal carcere. Accusata di aver ucciso una bambina, Rowan proclama la sua innocenza e supplica l’avvocato di assumere la sua difesa. E gli racconta i fatti. Gli scrive di aver accettato il posto di governante presso gli Elincourt perché era stanca del suo lavoro in un asilo nido, si sentiva sola perché la sua compagna di alloggio era via per un certo tempo, e poi il compenso offerto era troppo allettante per lasciarselo sfuggire. In più Heatherbrae, la grande casa ristrutturata dai suoi datori di lavoro, immersa nel selvaggio paesaggio scozzese, era un incanto.
Ma non è tutto oro quel che luccica. Rowan si trova a respingere le avances di Mr. Elincourt la sera stessa del suo arrivo e poi, contro ogni aspettativa, a dover restare subito sola con tre bambine (una è molto piccola e una quarta è ancora in collegio, rientrerà a metà settimana). Le uniche altre presenze sono una signora che viene al mattino a pulire la casa e il factotum Jack, uomo affascinante e un poco inquietante. C’è un bambino in più rispetto al romanzo di James, ma gli altri personaggi, rimaneggiati, ci sono tutti. Ci sono poi le dicerie allarmanti su una bambina morta avvelenata in quella casa, di un padre impazzito, di governanti che hanno resistito pochissimo a Heatherbrae, messe in fuga dai fantasmi.
Infine c’è il dettaglio che dapprima pare entusiasmante e dopo si rivela diabolico: tutta la casa è cablata, c’è una app che fa funzionare tutto, si possono dare ordini vocali per aggiungere un articolo alla spesa da fare, si può vedere e sentire, da un piano all’altro, che cosa stiano facendo le bambine. MA non c’è controllo manuale su niente, la porta non si apre, le luci non si accendono né si spengono se non si tocca il punto giusto su un pannello. E a chi piacerebbe sapere che una telecamera permette a qualcun altro di controllarti di continuo, anche nella tua stanza? O nella stanza da bagno? Rowan copre con un calzino la telecamera della sua stanza da letto (dettaglio che sarà poi a suo svantaggio).
Le bambine non sono così perfette come
sembravano, sembra ce l’abbiano proprio con Rowan- inizia un boicottaggio
sistematico contro di lei, soprattutto da parte della più grande, di otto anni.
Già sottoposta allo stress di gestire una situazione difficile con le tre
bambine, sentendosi in colpa per contravvenire alle tante regole stabilite
dalla madre in un fascicolo grande quanto un libro, in ansia per i pericoli in
agguato nel bosco, nello stagno, nel giardino dei veleni di cui non conosceva
l’esistenza, Rowan non riesce a dormire. Una notte dopo l’altra qualcosa
succede: risuona la musica ad alto volume in tutta la casa, porte chiuse
vengono trovate aperte o il contrario, passi pesanti risuonano sopra la testa
di Rowan- c’è forse una soffitta? E poi la sinistra testa di bambola di
porcellana che rotola sul pavimento e il fiore blu (velenoso?) trovato in
cucina. Un incubo che non ha fine. O meglio, ha una fine con la morte della
bambina di cui è accusata Rowan.
Finale sorprendente e sconvolgente in un
romanzo che non è una semplice storia di fantasmi ma una dolorosa riflessione
sulla famiglia e sull’infanzia, sulla presenza o assenza dei genitori e sugli
intrecci di gelosia e amore tra sorelle.
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