Voci da mondi diversi. Giappone
distopia
Hiroko Oyamada, “La fabbrica”
Ed. Neri Pozza, trad. Gianluca Coci, pagg. 198, Euro
18,00
La fabbrica. E’ la fabbrica il colossale
vero protagonista del romanzo della giovane scrittrice giapponese Hiroko
Oyamada che ha vinto il premio Shincho for New Writers. Se la fabbrica fosse
solamente un grosso edificio industriale, sarebbe facile. Ma la fabbrica è
tutto un mondo a sé, circondato dal nulla. Perfino il ponte lunghissimo che una
protagonista percorre in un tentativo di esplorazione pare non arrivare da
nessuna parte- è così lungo che non se ne vede la fine. La fabbrica è così
smisurata che contiene tutto, uffici, ristoranti, negozi, bar, capannoni di
produzione, scuole, linee di autobus. C’è anche una fauna strana e inquietante
nella fabbrica- grossi uccelli neri simili a cormorani sempre fermi alla foce
del fiume, nutrie dalle dimensioni enormi, lucertole delle lavatrici che si
nutrono di rimasugli di vestiti e di polvere dei detersivi.
Qualunque sia il mondo esterno a quello della fabbrica, sembra che ogni famiglia abbia qualcuno che lavora lì dentro: è considerato un onore lavorare in fabbrica. Ecco perché i tre protagonisti del romanzo in definitiva accettano volentieri il lavoro che gli viene offerto.
Yoshiko aveva già cambiato cinque lavori.
Quando le viene offerto un contratto a termine nella sezione ‘Servizi di
Stampa’ alla Fabbrica, lei accetta anche se non è quello per cui aveva fatto
domanda. Il suo lavoro sarà inserire documenti da distruggere nelle macchine
trita-documenti per sette ore e mezzo ogni giorno dal lunedì al venerdì.
Un’occupazione squallida, ripetitiva, in mezzo al rumore e alla polvere della
carta. Che cosa sono poi quei documenti per cui si è impegnata alla massima
segretezza? Non lo sa nessuno. Ma si può rifiutare un posto alla fabbrica?
È lo stesso motivo per cui anche suo
fratello, appena licenziato, ha accettato un lavoro a termine in fabbrica. Ha
competenze informatiche ma si trova a fare il correttore di bozze. Potrebbe
essere un’occupazione con una sua dignità, ma così com’è è assurdo. Nessuno
guarda quelle bozze corrette, a volte passano da un altro correttore e poi
ritornano indietro uguali a prima. Ushiyama si addormenta sempre più spesso
durante le ore al lavoro.
Il briologo Yoshio era ricercatore all’università, è stato il suo professore a segnalarlo alla fabbrica come esperto di muschi. Si trova a dirigere l’ufficio ‘sviluppo tetti verdi’. Lui non sa nulla di tetti verdi e non capisce perché non si siano rivolti alle ditte specializzate nel settore.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, i tre
personaggi ripetono gli stessi gesti, fanno sempre le stesse cose. Si può
calcolare un tempo non scandito dalla diversità? Quando Yoshiko incontra
Yoshio, verso la fine, devono essere passati quindici anni da quando sono
arrivati e l’aspetto fisico di Yoshio è quello di un uomo di mezza età. I
personaggi sono obbligati a guardarsi indietro e a chiedersi che cosa abbiano
concluso nella loro vita. Niente.
È un libro inquietante con un che di
kafkiano, grigio come la fabbrica che regola i giorni dei tre personaggi,
sottilmente misterioso con l’insinuazione di lavori senza una finalità e senza
fine, con l’alienazione dei personaggi che non hanno una vita propria al di
fuori della fabbrica, con la totale assenza di notizie che filtrano
dall’esterno rinchiudendo i protagonisti nel perimetro della fabbrica, con
quegli animali che paiono mutanti e minacciosi. E’ forse una metafora per la
perdita della dimensione umana del nostro mondo? per il lavoro ossessivo fine a
se stesso?
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