vento del Nord
romanzo autobiografico
Puk Qvortrup, “In una stella”
Ed.
Marsilio, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg. 196, Euro 16,50
Come si fa a dire ad un bambino di due
anni che il suo papà è morto? È una parola senza senso per lui, e già facciamo
fatica noi adulti a capire la morte. Allora gli si dice che il papà era andato
a correre e che correva così forte e non si è fermato, ed è arrivato fino ad
una stella. Lo si porta ad una finestra, gli si indica una stella- il papà è
lassù, lo si saluterà ogni sera.
A casa era tutto pronto per festeggiare il secondo compleanno di Elmer, lei stava decorando un omino di marzapane, con la pancia che la ingombrava perché c’era un secondo bambino in arrivo. Poi la telefonata e la corsa in ospedale. Lasse stava correndo la mezza maratona, un arresto cardiaco lo aveva stroncato. Aveva ventisette anni.
Se per romanzo intendiamo ‘fiction’, è impossibile definire ‘romanzo’ il libro di Puk Qvortrup, giornalista danese al suo esordio letterario. È un diario del dolore, l’elaborazione di un lutto, uno sfogo e una confessione letterari. Rimasta sola, con un figlio piccolo e un altro che sarebbe nato da lì a tre mesi, Puk passa attraverso tutti gli stadi della perdita. L’incredulità e l’incapacità di accettarla, la speranza contro ogni ragionevolezza che Lasse possa uscire dal coma, il vuoto totale dentro di sé, il crollo di ogni sogno per il futuro e i ricordi che si rovesciano su di lei, come un’onda gigantesca- come possono fare così male dei ricordi di tanta felicità? E poi Elmer, la rabbia di questo piccolo uomo che è preso da furie improvvise contro di lei, quasi la ritenesse responsabile per la scomparsa del papà. E le difficoltà pratiche della vita quotidiana che non si possono accantonare. La famiglia di lui e quella di lei che cercano di aiutare, gli amici che sembrano essere onnipresenti- tutto può diventare un peso, un fastidio, quando si vuol solo piangere.
Con sentimento, con pudore, con
delicatezza, con estrema sincerità, Puk Qvertrup, scrive una cronaca del
dolore, mettendosi a nudo, non nascondendo neppure l’assurdo eppur così
comprensibile rancore nei confronti del marito che l’ha lasciata sola, e
neppure il desiderio che la sorprende, di essere ancora bella, di avere delle
mani maschili che la accarezzano. Perché la vita va avanti, le stelle stanno a
guardare, un bambino nasce e ha gli occhi di Lasse, la routine giornaliera è un
delirio, ma in qualche maniera Puk ha trovato anche la forza di proseguire gli
studi di giornalismo.
E l’ultimo capitolo ci allarga il cuore.
Perché questo è un libro che fa male, che vorremmo accantonare ma non possiamo
farlo, perché i versi di John Donne, non
chiederti per chi suona la campana, riecheggiano nei nostri orecchi e
l’esperienza di chi ha avuto la forza di non lasciarsi inghiottire dal buio
della sofferenza è un esempio luminoso, da seguire, da ammirare e su cui
meditare.
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