diaspora
love story
Adrián Bravi, “L’idioma di Casilda Moreira”
Ed. Exòrma, pagg. 187, Euro 15,50
Un amore che è finito. Un amore che incomincia. Un professore anziano in
coma. Un suo studente che affronta un viaggio. Una lingua in coma come
l’anziano professore di etnolinguistica- sono rimaste due persone a parlare
questa lingua. Anzi, a non parlare questa lingua, perché questi unici due,
Bartolo e Casilda, non si rivolgono la parola da anni. Riuscirà lo studente che
parte per rintracciarli nella pampa ai confini tra Argentina e Patagonia a
farli uscire dal mutismo, a registrare questa lingua mantenendone il ricordo?
Sono questi gli ingredienti dell’insolito romanzo “L’idioma di Casilda Moreira”
dello scrittore di origine argentina Adrian Bravi.
Quando, tanti anni fa, in un romanzo di
Antonio Soler lessi la frase ‘la mia lingua è la mia patria’, mi restò nel
cuore e nella mente- rivado a quelle parole, così essenziali, ogni volta che
leggo di persone sradicate, di migranti, e penso alla lacerazione interna,
quasi ad una scissione di personalità che deve provocare il vivere con due
lingue. Perché noi siamo la lingua che parliamo. Siamo la lingua che le nostre
madri usavano con noi. Che abbiamo usato a scuola. In cui abbiamo rivolto le
prime parole di amore. È per questo che Casilda si rifiuta di parlare la lingua
dei günün a küna, i tehuelches della
Patagonia settentrionale, con Bartolo, il fedifrago che l’ha lasciata per
seguire un’altra donna. È morto il loro amore ed è morta la lingua per dirlo. E
c’è bisogno di uno studioso in punto di morte per dare la spinta al suo
studente per partire. Perché è incuriosito, perché condivide con il professore
la passione per le lingue, perché dentro di sé spera in un doppio miracolo,
risuscitare una lingua e risuscitare il professore.
Annibale Montefiori, un ragazzo goffo con i pesanti occhiali dalla montatura
nera, parte per l’ignoto- il suo è una variante del viaggio di apprendimento o
di formazione. Se la caverà benissimo, nonostante sembri così sprovveduto.
Scoprirà l’amore con la figlia del locandiere di questa località fuori dal
mondo che si chiama Kahualcan dove arriva nella sua ricerca di ex innamorati. E
lui non è certo il tipo del fedifrago, ma chissà se questo sentimento appena
sbocciato resisterà alla lontananza, quando lui, inevitabilmente, deve tornare
in Italia. Annibale si innamora anche degli ampi spazi aperti, della pampa così
totalmente diversa dalle dolci colline delle Marche da cui lui viene. Impara
perfino ad andare a cavallo, Annibale, per seguire la ragazza, per andare con
lei a parlare con Bartolo e Casilda.
Bartolo che dice qualche frase in günün a yajüch, ma dice anche che non c’è il corrispondente di
quelle parole in spagnolo, che è sempre in groppa al suo kawal da cui non si separa mai, che parla solo del suo cavallo, di
un luogo a sud dove crescono i nomi, del sole che sorge e tramonta. Casilda,
invece, racconta di sua nonna che era nomade, che le aveva insegnato a fare i
mantelli con le pelli degli animali e a dire le preghiere per fermare il vento
o per far uscire il sole. “Noi”- dice Casilda- “più che parlare, cantavamo
nella nostra lingua, perché è fatta più per cantare che per parlare da
cristiani”.
Lascio al lettore scoprire la fine di questo romanzo insolito, poetico e
a tratti divertente, che tocca in una strana maniera le corde del nostro cuore.
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