Casa Nostra. Qui Italia
biografia romanzata
premio Strega
Helena Janeczeck, “La ragazza con la Leica”
Ed.
Guanda, pagg. 333, Euro 15,30
Gerda Taro avrebbe compiuto 27 anni il
giorno del suo funerale, il primo agosto 1937. C’era una folla a darle l’ultimo
saluto al cimitero Père Lachaise a Parigi. E chissà che cosa c’era di lei in
quella bara, schiacciata da un carro armato a Brunete, in Spagna. Meglio
ricordarla da viva senza immaginarla da morta. Gerda che sorride rivolta a
Robert Capa, come appare nella foto in una delle prime pagine del libro di Helena
Janeczeck, “La ragazza con la Leica”, così stranamente somigliante alla miliziana
spagnola che sorride all’uomo con il fucile in una pausa della guerra, uno
scatto ripreso sia da Gerda sia da Robert Capa e il diverso formato delle
fotografie ne è la prova. Gerda che viene descritta come bellissima da chi l’ha
avvicinata. O, se non bellissima, affascinante. Perché solare, piena di vita,
di interessi. Perché si gettava a capofitto in tutto quello che faceva. Era
arrivata esule a Parigi dalla Germania, aveva fatto la segretaria e la modella,
poi Capa le aveva regalato la sua Leica e lei ne aveva fatto la sua arma, quasi
fosse la sua missione registrare la Storia del mondo- che era la guerra civile
in Spagna in quel momento. Capa che non si chiamava neppure così, veramente,
bensì Endre Friedmann, così come il vero nome di Gerda Taro era Gerta
Porohylle. Ma come ci si poteva imporre all’attenzione, diventare fotografi
famosi, con dei nomi così smaccatamente ebrei? Robert Capa (che faceva venire
in mente Frank Capra, il regista) e Gerda Taro erano una loro invenzione, e
quanto meglio suonavano all’orecchio.
Non si sa poi molto di Gerda, visse così
poco. La scrittrice Helena Janeczeck ne traccia il ritratto mettendo insieme le
tessere di un puzzle al centro del quale c’è lei, Gerda, travolta dal carro
armato (nessuno era riuscito ad impedirle di avvicinarsi troppo?), intorno a
lei gli amici, gli uomini che furono, a lungo o per breve tempo, i suoi amanti,
la sua migliore amica, e, sullo sfondo, le città in cui visse- Stoccarda (dove
si fidanzò con un uomo che continuò ad aiutarla economicamente anche quando lei
era già a Parigi), Lipsia, Parigi (dove incontrò l’ungherese Robert che si
chiamava ancora Endre, più giovane di lei, geniale, estroverso, esuberante
quanto lei). Il libro procede, dunque, attraverso diversi punti di vista- quello
dell’amica Ruth Cerf che conosceva i dettagli più intimi della vita di Gerda, quello
dello studente di medicina Willy Chardack detto ‘il Bassotto’ (innamorato senza
speranza), quello di Georg Kuritzkes, militante di sinistra soppiantato nel
cuore di Gerda da Endre Friedmann quando questi compare sulla scena.
E allora,
dai ricordi dell’uno o dell’altro, dal libro della Janeczeck balza fuori, più
che ‘la fotografia’ della sola Gerda Taro, quella di un’intera generazione, di
una gioventù bruciata non da alcol e vizi ma dalla Storia tumultuosa che spazzò
l’Europa dagli anni ‘30 agli anni ’50 (era il 1954 quando Robert Capa, il fotografo
spericolato che aveva coperto quattro guerre, morì in Vietnam nella prima
guerra di Indocina). Erano tutti antifascisti e pronti a combattere e morire
per i loro ideali, e la macchina fotografica era- per Gerda Taro e Robert Capa-
lo strumento per documentare gli orrori della guerra, perché la parola ‘guerra’
non restasse solo una parola ma si focalizzasse in immagini di dolore e di
distruzione e di morte.
C’è anche un piccolo ‘mystery’ nella parte
finale del libro, la storia della valigia smarrita e ritrovata in Messico,
quella che conteneva i negativi delle foto di Capa e che poteva comprovare la
discussa autenticità della sua fotografia più famosa, quella del miliziano colpito
a morte, con le braccia aperte come in croce. E c’è pure un risvolto personale
che riconduce alla storia dei genitori della scrittrice, ebrea di origine
polacca naturalizzata italiana da oltre trent’anni.
“La ragazza con la Leica” ha vinto l’edizione
del premio Strega 2018.
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