Voci da mondi diversi. Africa
biografia
autobiografia
il libro dimenticato
Hisham Matar, “Il ritorno”
Ed. Einaudi, trad. Anna Nadotti,
pagg. 243, Euro 19,50
C’è un filo che unisce i romanzi di Hisham Matar, lo scrittore libico
nato a New York nel 1970 che vive a Londra dal 1986. Un filo che si srotola
come il filo d’Arianna, da “Nessuno al mondo”, passando attraverso “Anatomia di
una scomparsa”, fino a “Il ritorno”, l’ultimo suo libro che ha vinto il Premio
Pulitzer 2017 per la biografia e l’autobiografia. Un filo che collega Hisham
Matar al padre Jaballa, il grande assente presente nei tre libri, anche se
soltanto nell’ultimo appare con il suo vero nome.
Jaballa Matar, leader
dell’opposizione libica, era stato costretto a rifugiarsi al Cairo con la
famiglia nel 1979. Non era stata una misura sufficiente: agenti dei servizi
segreti egiziani lo rapirono nel 1990. Consegnato al regime libico, Jaballa
Matar fu rinchiuso nel famigerato carcere di Abu Salim, a Tripoli. Riuscì a far
arrivare ai famigliari due lettere, una nel 1992 e una nel 1995. Poi silenzio.
E nel 2001 si venne a sapere che circa 1200 prigionieri erano stati uccisi ad
Abu Salim in un’esecuzione di massa. La famiglia di Jaballa aveva perso ogni
speranza che lui potesse essere ancora vivo. Poi una fiammella- forse era stato
trasferito in un altro carcere due mesi prima della carneficina, forse qualcuno
lo aveva visto nel 2002. Nel 2010 il ministro degli esteri britannico fu
sollecitato con una petizione firmata da 270 scrittori perché richiedesse il
ripristino dei diritti umani in Libia e ottenesse informazioni su Jaballa Matar
e altri prigionieri politici. E infine, nel 2011, l’ultimo atto di una
dittatura durata 42 anni con l’uccisione di Gheddafi.
Hisham Matar con il padre Jaballa |
“Il ritorno” è il viaggio di Telemaco in
cerca del padre e Hisham Matar è un novello Stephen Dedalus che cerca di
mettere insieme i frammenti della memoria e delle testimonianze per ricostruire
l’immagine di un uomo di gran valore, per cultura, per dirittura morale, per i
suoi ideali, la sua incorruttibilità, la sua generosità. Ritroviamo alcuni
dettagli che ricordiamo dagli altri romanzi, perché, con un nome o con un
altro, nascosti dietro altre trame, Jaballa e la sua scomparsa erano il nodo
della narrativa di Hisham Matar. Così come il dolore che si avverte in ogni
pagina, in ogni riga, quando lo scrittore parla del padre, di come era in
famiglia nei vent’anni in cui aveva potuto conoscerlo, e poi di come può solo
immaginarlo negli altri vent’anni in prigionia. Un’immagine costruita
attraverso le scarse e saltuarie parole di chi gli ha parlato attraverso un
muro o lo ha intravisto da una feritoia. E allora sembra che il petto possa
scoppiare per il dolore al pensiero di quello che Jaballa deve aver sopportato.
Lo zio Mahmoud è sopravvissuto ad Abu Salim, i cugini di Hisham sono
sopravvissuti. Le ricerche sono estenuanti. Saif Gheddafi, il figlio del
dittatore con cui Hisham entra in contatto, sembra fare il gioco del gatto con
il topo, sembra stuzzicare la speranza, lascia cadere informazioni con il
contagocce.
Hisham con lo zio Mahmoud |
E intanto, leggendo la storia di un uomo
eccezionale, leggiamo anche quasi cento anni di storia della Libia (il nonno di
Hisham aveva combattuto contro gli occupatori italiani) e percepiamo un altro
dolore dietro quello, cocente, di doversi rassegnare ad avere perso un padre
senza aver mai saputo ‘quando’ e ‘come’, senza avergli potuto dare sepoltura.
E’ il dolore di chi ha perso le sue radici e la sua appartenenza e non sa più
identificarsi.
Da leggere.
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