Voci da mondi diversi. Medio Oriente
Quando, anni
fa, avevamo letto “Prove d’amore”, il primo romanzo della scrittrice israeliana
Savyon Liebrecht, ci aveva colpito l’originalità della storia- l’amore ‘a
tempo’ di due persone che si conoscono andando a far visita ai rispettivi
genitori in una clinica geriatrica. Leggendo in seguito i suoi libri di
racconti, “Mele dal deserto”, “Donne da un catalogo” e “Un buon posto per la
notte”, avevamo ammirato l’eleganza, la sensibilità e la discrezione del suo
modo di narrare. Sono tutte qualità che abbiamo ritrovato in quest’ultimo
romanzo appena pubblicato dalla e/o, di cui abbiamo parlato con la scrittrice
durante la Fiera
del Libro di Torino.
Questo è il primo romanzo dopo “Prove d’amore”.
In mezzo ci sono raccolte di racconti: trovo sempre affascinante osservare come
uno scrittore riesca a passare dai racconti ai romanzi. Come le è venuta l’idea
per questo romanzo e come ha saputo che era l’idea per un romanzo e non per un
racconto?
Penso
di essere, prima di tutto, una scrittrice di racconti. Infatti entrambi i miei
romanzi all’inizio erano dei racconti. In questo caso l’idea era quella di un
ragazzo che passa da una casa all’altra con il padre, era sul tempo passato
insieme, di padre e figlio senza casa, alla ricerca di un tetto per la notte.
Questo è il cuore del romanzo. Poi è venuta la domanda- dov’è la madre? E da
una domanda ne nasce un’altra, e le domande sono diventate risposte sempre più
lunghe e il racconto è diventato un romanzo.
I due personaggi principali sono due
uomini: ha trovato difficile scrivere del dongiovanni Aharon Rosenberg?
No, per niente. Penso che la domanda se sia
difficile scrivere con una consapevolezza di uomo o di donna, se a farlo è uno
scrittore del sesso contrario, sia irrilevante: è lo stesso, non fa differenza.
Dipende da quanto si va in profondità, perché nel profondo la psiche di un uomo
e di una donna si incontrano. La differenza è nel comportamento esterno dei
gesti, ma il cuore è lo stesso. Una volta che ho delle informazioni sui
protagonisti, non ho nessun problema. I bisogni e i desideri umani fondamentali
sono gli stessi, non c’è una divisione così netta.
A proposito di Aharon Rosenberg, ci
piacerebbe sapere quale è la storia che ha dietro di sé, che cosa c’è nel suo
passato che lo porta in maniera così forte verso le donne. Potrebbe essere il
soggetto di un altro romanzo?
Quello che
avevo in mente per Abraham era un sopravvissuto dell’Olocausto, un bambino che
a suo tempo non ha avuto abbastanza amore e così continua a cercare amore. La
sua è stata un’infanzia non realizzata, il bambino che è in lui non si è
sviluppato, si comporta in maniera irresponsabile. Ci sono dei momenti in cui
il ragazzo sembra più adulto del padre.
La letteratura ebraica è spesso sulla
memoria. Anche questo è un libro sulla memoria, anche se di tipo diverso. Si
può sempre manipolare la memoria, come qualunque altro processo mentale?
Sì, ho letto molti libri su come la gente
ricorda o dimentica le cose, e poi qualcosa fa loro tornare in mente tutto. Si
dice che se qualcuno nasconde un tesoro mentre è ubriaco, se lo vuole ritrovare
è meglio che si ubriachi di nuovo, perché non lo troverà mai da sobrio. Come
posso applicare questo al mio libro? Il bambino è cresciuto, non si può
ritornare all’infanzia. Quando però ritorna sul posto, allora i sensi
funzionano, quello che vede, gli odori che fiuta lo fanno ricordare. Negli
Stati Uniti doveva iniziare una nuova vita, proprio come i sopravvissuti
dell’Olocausto e non poteva permettersi di ricordare, doveva rimuovere la
memoria.
La memoria della Shoah che deve essere
mantenuta ad ogni costo, anche a quello della manipolazione: i suoi genitori
sono sopravvissuti all’Olocausto, le hanno mai parlato dei ricordi del tempo
prima, durante e dopo la guerra?
So che ci sono dei sopravvissuti che
parlano della loro infanzia prima della guerra. I miei genitori parlavano solo
di dopo che si sono incontrati. Dopo la guerra mio padre ha trovato un lavoro e
ha affittato una casa da dei tedeschi che avevano perso il figlio in guerra. E’
straordinario: io sono nata in Germania e, quando siamo andati a vivere in
Israele, i miei hanno continuato a corrispondere con queste persone; io li
chiamavo “Oma” e “Opa”, nonno e nonna. Non ho mai saputo se i miei genitori
avessero dei fratelli e delle sorelle. Eppure esiste un silenzio che trasmette
delle informazioni. Scopro di sapere delle cose che non mi sono mai state
dette. Ad esempio, che mio padre era già stato sposato e aveva avuto un bambino-
lo sapevo, lo avevo capito da una fotografia…
Il personaggio più toccante del libro è
Berel, il sopravvissuto. Il ragazzino, e poi il giovane uomo che diventa, è
molto affezionato a lui: che cosa hanno in comune?
Penso che lo riconosca come il debole, in
un certo senso sono entrambi vittime della loro situazione. Si assomigliano
nella loro vulnerabilità, nel fatto che sono emarginati, Berel nella società e
il bambino fra gli altri bambini.
La madre resta piuttosto fuori della scena:
come mai?
E’ americana e gli americani non hanno mai
sperimentato niente di così terribile come l’Olocausto. L’America è un mondo
così diverso. Gli ebrei americani sono dell’alta borghesia, non riescono a
capire. Lei è cattiva nei confronti di Berel, è una ragazza viziata che ad un
certo punto crede di vivere in un sogno e poi la sua vita viene spezzata.
La bellissima poesia che termina il libro è
intesa per farci cambiare idea su Aharon?
E’ un po’ come le domande su quale sia la
verità: che cosa è successo in quella stanza? Aharon ha ucciso l’attrice?
Oppure si è suicidata? O l’ha uccisa sua sorella? E così anche la poesia
dedicata da Aharon alla moglie, che viene però letta anche dall’altra donna: è
l’enigma della vita stessa.
l'intervista e la precedente recensione sono state pubblicate su www.wuz.it
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