Voci da mondi diversi. Asia
la Storia nel romanzo
Hitonari Tsuji, “Il Buddha
bianco”
Ed. Tropea, trad. Francesco
Bruno, pagg. 252, Euro 17,50
Titolo originale: Hakubutsu
Minoru si trovava, in compagnia di quattro o
cinque soldati, in una trincea poco lontana dalla caserma. Fissava la distesa
grigia e bianca che aveva davanti. Per il giovane, che fino ad allora non aveva
mai lasciato il Kyushu, quel villaggio rappresentava tanto la sua prima
esperienza del mondo esterno quanto la frontiera fra la vita e la morte.
“Non ho nessuna voglia di morire qui” era il leitmotiv di quei giovani
soldati. Era troppo penoso sacrificare la vita, foss’anche per la patria, in un
paesaggio così desolato e così lontano sotto ogni punto di vista dal loro
Giappone natale.
Nella minuscola isola di Ono, nel Giappone meridionale, quattro bambini
giocano: hanno infilato un petardo nell’ano di un rospo, lo faranno esplodere
lanciandolo in aria. L’idea della bomba-rospo è di Minoru Eguchi, che
continuerà per tutta la vita a inventare e brevettare le sue idee geniali- una
mitraglietta, mini-trattori adatti per i piccoli appezzamenti di terreno
giapponesi, un essiccatore di alghe, una rete munita di un trinciante da
agganciare alle barche per facilitare la pesca delle alghe. E infine il Budda
bianco, la più mistica delle sue creazioni, la statua gigantesca che uno
scultore avrebbe fatto per lui con la polvere delle ossa di tutti i morti
dell’isola.
Per il lettore che riesce a distaccarsi dagli schemi della narrativa
occidentale “Il Buddha bianco” dello scrittore giapponese Hitonari Tsuji
(famoso non solo come scrittore, ma anche come cantante rock) si rivela un
libro straordinario, uno di quei libri che riassumono l’esistenza nelle loro
pagine: la vita con il frenetico avvicendarsi di gioie e dolori e la morte,
fatta di quiete, di silenzio e di ritorno al nulla. La trama del romanzo è
simile a cerchi concentrici che si allargano sull’acqua quando viene scagliato
un sasso: il cerchio dal diametro minore è la storia dei quattro ragazzini che
diventano adulti, il cerchio seguente è quella della famiglia Eguchi, segue la
storia dell’isola e, infine, il cerchio più vasto che tutti li racchiude è uno
squarcio sulla storia del Giappone nella prima metà del secolo XX.
Dei quattro ragazzi solo uno si allontanerà
dall’isola, farà il militare e sarà il primo a morire. Gli altri tre continueranno
il lavoro dei padri ed è strano come questo lavoro abbia a che fare, in qualche
maniera, anche solo simbolicamente, con la morte, in un intreccio inestricabile
dalla vita. Perché il padre di Kiyomi è il custode del crematorio e quello di
Tetsuzo fa il barcaiolo- avanti e indietro da una sponda all’altra per
traghettare chi deve passare al di là del fiume. E’ inevitabile pensare al
traghettatore di anime nell’aldilà e, inoltre, quanti corpi ha inghiottito quel
fiume- morti suicidi, morti per un incidente. Come l’amante di Tetsuzo che si è
tolta la vita dopo la morte di questi. Come il fratellino di Minoru, caduto in
acqua mentre giocava con lui, che ritornerà sempre nei suoi pensieri per sempre
bambino. D’altra parte non c’è una linea definita di demarcazione tra il mondo
dei vivi e quello dei morti, ed è giusto e bello che sia così. I morti vivono
finché ci si ricorda di loro e hanno la possibilità di un’altra vita
reincarnandosi in qualcun altro: in questo modo si spiegano quelle strane
sensazioni di déja-vu che prova ogni tanto Minoru, così come le proverà sua
figlia Rinko.
La famiglia di Minoru Eguchi
discende da un samurai, da lì l’arte di forgiare le spade che in seguito sarebbero
state sostituite dalle baionette e poi in armi e ancora dopo in attrezzi
agricoli o per la pesca. Minoru era poco più che un ragazzino quando era stato
mandato a combattere in Siberia, nel 1919. Un’esperienza che lo avrebbe segnato
per sempre. Nel gelo paralizzante, nella distesa bianca senza fine, in attesa
di un nemico invisibile, quel posto era per lui “la frontiera tra la vita e la
morte”. La morte Minoru l’aveva già conosciuta: era morto il fratellino, era
morta la ragazza che era stata il suo primo amore. Ma la morte che Minoru
avrebbe dato di sua mano ad un ragazzo dagli occhi chiari- quella era diversa.
Minoru lo aveva ferito e poi lo aveva ucciso. Deliberatamente. Minoru si
sentiva, Minoru era un assassino.
Da bambino Minoru aveva paura di essere
stato contagiato, di aver preso la malattia della morte. Aveva chiesto se tutti
dovessero morire, un giorno. Ma- e questa è la fantastica visione che Minoru
anziano ha, infine- se si creasse un luogo di culto in cui venisse esposta la
statua di un Budda fatto con le ossa di tutti i morti, questa sarebbe la
maniera perché nessun morto fosse dimenticato, perché a tutti venisse reso
omaggio, perché i defunti, trovandosi tutti insieme, non si sentissero mai più
soli. Un Budda dalla grande faccia serena, dall’espressione di una dolcezza
infinita. Un Budda che tutto sa, tutto comprende. Un Budda bianco di polvere di
ossa, bianco come il colore del lutto.
Leggiamo nella postfazione che il nonno
dello scrittore è servito da modello per l’eroe del romanzo e che Hitonari
Tsuji ha scritto il libro per cercare una risposta al perché suo nonno avesse
costruito il Budda bianco dell’isola di Ono. Ci piace la risposta che ha
trovato in un romanzo spoglio, poetico, esistenziale.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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