Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
il libro dimenticato
Elizabeth Strout, “Mi chiamo Lucy Barton”
Ed. Einaudi, trad. S. Basso,
pagg. 158, Euro 14,88
Bello l’inizio. La voce sembra quasi sognante, la realtà non è affatto
da sogno: “Ci fu un tempo, e sono ormai
molti anni fa, quando sono dovuta restare per quasi nove settimane in ospedale”
(la traduzione è la mia, può non coincidere con quella dell’edizione italiana
del libro di Elizabeth Strout). Un’altra immagine molto bella subito dopo: “di notte, direttamente dal mio letto si
scorgeva una vista del Chrysler Building, con la brillantezza geometrica delle
sue luci. Di giorno la bellezza dell’edificio diminuiva e diventava a poco a
poco soltanto un’altra grande struttura contro il cielo blu, e tutti gli
edifici della città sembravano remoti, silenziosi, lontani.”
Una donna immobile in un
letto d’ospedale. Il tempo scandito dalle luci che si accendono di notte sul
grattacielo Chrysler conferendogli un’atmosfera magica. Il silenzio della città
dietro i vetri. L’invidia verso le persone che, di giorno, affollano il
marciapiede, giù in basso. La speranza di mescolarsi a loro, presto. La
nostalgia per le sue due bambine. E poi, inaspettata, arriva la madre di Lucy
che è la voce narrante che abbiamo sentito. Non si vedevano né sentivano da
anni. E’ stato il marito di Lucy a telefonarle per chiederle di venire. La
madre, che non si era mai mossa dalla cittadina rurale nell’Illinois dove Lucy
è cresciuta, ha preso un aereo per la prima volta nella sua vita e poi un taxi
per la prima volta nella sua vita, per sedersi vicino al letto della figlia.
Non accetterà mai di sdraiarsi, dormirà a tratti, seduta, vigile, nelle cinque
notti a New York. E parlano, lei e Lucy. E Lucy ricorda il passato.
La madre racconta (poco) del fratello che
dorme accanto ai maiali che devono essere macellati e che continua a leggere
libri per bambini. Racconta (tanto) di donne che un tempo Lucy conosceva. Di
chi abbiano sposato, di che cosa ne sia stato di loro, di come i loro matrimoni
siano finiti. Perché questa sembra essere la costante di tutte queste storie
che sembrano pettegolezzi, oppure sono come un messaggio cifrato- la felicità
coniugale non esiste.
Lucy ricorda. La povertà, la miseria incredibile, le frasi dei compagni
di scuola, “la tua famiglia puzza”, il freddo del garage in cui abitavano, il
furgone in cui lei, Lucy, veniva chiusa (avrà avuto quattro anni) quando i
genitori andavano al lavoro. Lei urlava- questo ricorda- e piangeva fino ad
addormentarsi spossata, finché suo padre tornava e la faceva uscire. A scuola
si fermava oltre l’orario di lezione. Perché stava al caldo. E leggeva tutti
libri che trovava. Era bravissima, a scuola.
Con una straordinaria economia di
linguaggio, Elizabeth Strout ci racconta di un legame tra madre e figlia- una
madre anafettiva che, però, è pur sempre una madre, e una figlia che, soltanto
allontanandosi dalla famiglia, è riuscita a diventare qualcuno seguendo la sua
strada con tenacia e forza di volontà. Madre e figlia non parlano tra di loro a
cuore aperto, lo fanno parlando di altro e di altre persone. Quanti segreti
restano non detti. Forse l’amore che le lega è come le luci del Chrysler
Building circondato dalle ombre della notte- tornata nell’Illinois la madre
spedisce alla figlia una cartolina con il Chrysler Building. E le cose non
dette, i ricordi non tirati fuori a prendere aria, sono quelli più dolorosi-
Lucy non è neppure in grado di parlare con la psicologa di qualcosa che deve
farle molto male, ne scrive su un foglietto che le consegna, quasi di nascosto.
Come è successo per le donne di cui parlava la madre in ospedale, anche
il matrimonio di Lucy non finirà bene. Le sue figlie gliene vorranno- è un
modello che si ripete, quello dei contrasti tra genitori e figli?
E se il libro iniziava nel
presente con la vista di New York dall’alto, termina nel passato che non si può
accantonare, con la vista sognata del sole autunnale che tramonta sulla
campagna intorno alla fattoria nell’Illinois, con la luce che indugia prima del
buio. “Come se l’anima potesse essere in
pace in quei momenti. Tutta la vita mi stupisce”. E noi pensiamo alla madre
che aveva chiesto, “Come fate a vivere senza il cielo?”.
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