sabato 13 gennaio 2018

Elizabeth Strout, “Mi chiamo Lucy Barton” ed. 2016

                                        Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
   il libro dimenticato


Elizabeth Strout, “Mi chiamo Lucy Barton”
Ed. Einaudi, trad. S. Basso, pagg. 158, Euro 14,88


     Bello l’inizio. La voce sembra quasi sognante, la realtà non è affatto da sogno: “Ci fu un tempo, e sono ormai molti anni fa, quando sono dovuta restare per quasi nove settimane in ospedale” (la traduzione è la mia, può non coincidere con quella dell’edizione italiana del libro di Elizabeth Strout). Un’altra immagine molto bella subito dopo: “di notte, direttamente dal mio letto si scorgeva una vista del Chrysler Building, con la brillantezza geometrica delle sue luci. Di giorno la bellezza dell’edificio diminuiva e diventava a poco a poco soltanto un’altra grande struttura contro il cielo blu, e tutti gli edifici della città sembravano remoti, silenziosi, lontani.”
      Una donna immobile in un letto d’ospedale. Il tempo scandito dalle luci che si accendono di notte sul grattacielo Chrysler conferendogli un’atmosfera magica. Il silenzio della città dietro i vetri. L’invidia verso le persone che, di giorno, affollano il marciapiede, giù in basso. La speranza di mescolarsi a loro, presto. La nostalgia per le sue due bambine. E poi, inaspettata, arriva la madre di Lucy che è la voce narrante che abbiamo sentito. Non si vedevano né sentivano da anni. E’ stato il marito di Lucy a telefonarle per chiederle di venire. La madre, che non si era mai mossa dalla cittadina rurale nell’Illinois dove Lucy è cresciuta, ha preso un aereo per la prima volta nella sua vita e poi un taxi per la prima volta nella sua vita, per sedersi vicino al letto della figlia. Non accetterà mai di sdraiarsi, dormirà a tratti, seduta, vigile, nelle cinque notti a New York. E parlano, lei e Lucy. E Lucy ricorda il passato.

    La madre racconta (poco) del fratello che dorme accanto ai maiali che devono essere macellati e che continua a leggere libri per bambini. Racconta (tanto) di donne che un tempo Lucy conosceva. Di chi abbiano sposato, di che cosa ne sia stato di loro, di come i loro matrimoni siano finiti. Perché questa sembra essere la costante di tutte queste storie che sembrano pettegolezzi, oppure sono come un messaggio cifrato- la felicità coniugale non esiste.
   Lucy ricorda. La povertà, la miseria incredibile, le frasi dei compagni di scuola, “la tua famiglia puzza”, il freddo del garage in cui abitavano, il furgone in cui lei, Lucy, veniva chiusa (avrà avuto quattro anni) quando i genitori andavano al lavoro. Lei urlava- questo ricorda- e piangeva fino ad addormentarsi spossata, finché suo padre tornava e la faceva uscire. A scuola si fermava oltre l’orario di lezione. Perché stava al caldo. E leggeva tutti libri che trovava. Era bravissima, a scuola.

    Con una straordinaria economia di linguaggio, Elizabeth Strout ci racconta di un legame tra madre e figlia- una madre anafettiva che, però, è pur sempre una madre, e una figlia che, soltanto allontanandosi dalla famiglia, è riuscita a diventare qualcuno seguendo la sua strada con tenacia e forza di volontà. Madre e figlia non parlano tra di loro a cuore aperto, lo fanno parlando di altro e di altre persone. Quanti segreti restano non detti. Forse l’amore che le lega è come le luci del Chrysler Building circondato dalle ombre della notte- tornata nell’Illinois la madre spedisce alla figlia una cartolina con il Chrysler Building. E le cose non dette, i ricordi non tirati fuori a prendere aria, sono quelli più dolorosi- Lucy non è neppure in grado di parlare con la psicologa di qualcosa che deve farle molto male, ne scrive su un foglietto che le consegna, quasi di nascosto.
   Come è successo per le donne di cui parlava la madre in ospedale, anche il matrimonio di Lucy non finirà bene. Le sue figlie gliene vorranno- è un modello che si ripete, quello dei contrasti tra genitori e figli?

E se il libro iniziava nel presente con la vista di New York dall’alto, termina nel passato che non si può accantonare, con la vista sognata del sole autunnale che tramonta sulla campagna intorno alla fattoria nell’Illinois, con la luce che indugia prima del buio. “Come se l’anima potesse essere in pace in quei momenti. Tutta la vita mi stupisce”. E noi pensiamo alla madre che aveva chiesto, “Come fate a vivere senza il cielo?”. 


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