Casa Nostra. Qui Italia
prima guerra mondiale
Paolo Malaguti ha appena
terminato di parlare del suo libro insieme a Domenico Quirico durante un evento
nell’ambito di Bookcity a Milano. Lui ed io continuiamo a parlarne in un caffè della
stazione centrale. Dall’alto, dove siamo seduti, vediamo partire i treni,
sentiamo gli annunci dell’altoparlante. Possiamo cercare di immaginare i treni
di cento anni fa, le tradotte che portavano i soldati al fronte, il convoglio
della canzone, non ti ricordi, quel mese
di aprile, quel lungo treno che andava al confine…
“Prima dell’alba” non è il suo primo libro
sul tema della prima guerra mondiale. Precedentemente ha scritto “Sul Grappa
dopo la vittoria”. Si può forse dire che lei sia nato e cresciuto con
l’interesse per la prima guerra mondiale, perché ne ha sempre sentito parlare
come se oggi fosse ancora l’altroieri?
Dopo “Sul Grappa dopo
la vittoria”, come è arrivato a scrivere questo libro?
Parlando di “Sul Grappa dopo la vittoria” nelle scuole, mi
sono accorto che dovevo lasciare indietro certi aspetti della Grande Guerra- le
fucilazioni, i suicidi di trincea. Non ne parlavo perché mi rendevo conto che
la memoria della Grande Guerra è ancora problematica in una vasta area del
Veneto e del Friuli. In occasione dell’anniversario ho pensato di raccontare
una storia che aprisse gli occhi su questa dimensione calata nell’oblio
dell’indifferenza, nonostante che il centenario dovrebbe essere un’occasione
per un riesame.
In passato prevaleva
una visione trionfalista della prima guerra mondiale. Eravamo i vincitori, si
celebrava con gran pompa il giorno della vittoria. Eppure, anche se ero
bambina, non mi tornavano i conti. Da quello che leggevo, tra le righe di
esultanza, io percepivo in realtà una sconfitta. Quale il mito e quale la
realtà della Grande Guerra?
Partiamo da un dato di fatto. Per ben oltre la fine del
fascismo è continuata una visione parziale della Grande Guerra. Non è una
visione distorta. Ci fu chi visse la Grande Guerra come l’occasione per la
realizzazione di ideali nazionalisti. Azzardando una statistica, si può dire
che la maggior parte dei soldati della Grande Guerra o era contraria o se la
fece andar bene. Questa visione critica o di sopportazione è stata passata
sotto silenzio o censurata pesantemente. Basta pensare che nel 1964, al
festival della canzone di Spoleto, è stata cantata ‘O Gorizia, tu sei maledetta’, e i cantanti sono stati denunciati
per vilipendio delle forze armate. Oggi c’è il rischio della reazione
contraria, di buttare via la Grande Guerra in nome della retorica passata. E’
necessaria invece una memoria completa- dare spazio a chi è stato ucciso dai
soldati italiani, a chi ha cercato di sottrarsi alla guerra, oltre che ai
protagonisti di una guerra voluta della memoria ufficiale.
Dei tanti casi citati
in ogni inizio di capitolo, di soldati messi a morte per inezie o per aver
abbandonato la posizione, che cosa le ha fatto scegliere quella dell’artigliere
Ruffini?
Nella ricerca di un punto da cui
partire per il mio libro, mi sono imbattuto in Alessandro Ruffini e nel
generale Graziani a cui Ruffini è legato a doppio filo. Ruffini è stato
fucilato in un paesino vicino a Padova- ero passato spesso, con gli amici, in
bicicletta, accanto alla lapide che però non avevo mai notato. Perché la lapide
è invisibile- è un quadrato di marmo degli anni ‘70 con le date di nascita e di
morte. Ci si domanda come mai un paese- e per paese intendo l’Italia- abbia
scelto di non ricordare storie così allucinanti. Ruffini era un fante di 24
anni, aveva marciato per due settimane sotto la pioggia, aspettava i complementi,
cioè i ragazzi del ‘99, gli ultimi arruolati, ed è stato visto da Graziani. Si
deve dire che Graziani non abusa del suo potere, agisce in nome dell’autorità
conferitagli dal generale Cadorna per rimettere in piedi l’esercito italiano.
L’ordine era di fucilare chiunque ritenesse colpevole di un atto di
insubordinazione.
Quanti sono stati i
soldati morti come Ruffini?
Limitandosi alle
fucilazioni ufficiali, cioè non sommarie, ci sono stati tra 750 e 800 fucilati.
In realtà furono di più. Per fare un paragone, pensiamo alla Germania che, con
un anno in più di guerra, ne ha avuto 47. A Ruffini è stata restituita la
memoria di recente, in concomitanza con l’uscita del libro è stata messa
un’altra lapide che spiega come e perché sia morto. Tuttavia è un’eccezione.
Gli altri soldati fucilati non hanno sepoltura nei sacrari, non sono
nell’elenco dei caduti. E’ stato un dramma anche per le famiglie che sono state
bollate per questo, c’è chi non ha potuto partecipare a concorsi pubblici
perché parente di qualcuno che era stato fucilato.
E vogliamo anche
spendere una parola per i disertori, per quelli che non ce l’hanno fatta a
reggere?
Anche qui non abbiamo numeri precisi. Spesso veniva accusato
di diserzione anche chi di fatto non lo era. Un soldato che aveva avuto una
licenza di una settimana e veniva dal Sud, a volte era obbligato a stare
lontano dal fronte più di una settimana per il ritardo dei convogli. Se al
rientro trovava un sottufficiale pignolo correva il rischio di essere fucilato
per essere arrivato in ritardo. Era una diserzione apparente. Dopo Caporetto
Cadorna scarica la responsabilità sulla 2° Armata, accusata della ritirata. I
quasi 250.000 prigionieri in mano austriaca non ricevettero cibo dall’Italia e
più di 100.000 morirono di fame nei campi di prigionia austriaca. E’ un caso
unico perché di norma i prigionieri ricevevano aiuto dalla madrepatria. Fu
un’apparente diserzione punita con la vita. Ci furono persone che per motivi
ideologici o famigliari o di sopravvivenza decisero di tentare la diserzione.
Furono presi e fucilati e anche questi furono colpiti dalla damnatio memoriae, una censura che
riguardava anche le loro famiglie. Furono relativamente pochi, invece, i casi
di disubbidienza e, secondo me, non ci fu tanto una maturazione di coscienza
nazionale ma, dal 1916 in avanti, il timore della decimazione- per ordine di
Cadorna, che riprendeva una circolare del duca di Aosta, nel caso che il responsabile
non fosse individuabile veniva estratto a sorte e fucilato uno di dieci. Ci fu
un controllo trasversale: chi voleva disertare veniva trattenuto a forza dai
commilitoni.
Mi è parso che, dei due
personaggi principali dei due filoni narrativi, il Vecio e l’ispettore
Ottaviano, quest’ultimo sia una sorta di doppio dell’altro ad anni di distanza.
Non solo perché la sorte di Ottaviano sarebbe potuta essere quella del Vecio,
ma anche perché tutti e due praticano il diritto della disobbedienza ad ordini
iniqui. E’ questo il significato profondo del libro? Il diritto e il dovere
etico della disobbedienza?
Assolutamente sì. Questo è uno dei nodi intorno a cui ho
cercato di costruire la trama: il dilemma etico dell’obbedienza a un ordine
ingiusto e la conseguenza della disobbedienza. Ho cercato di mettere in
evidenza che la disobbedienza non fu, a mio avviso, una questione ideologica ma
pura e istintiva sopravvivenza e le gerarchie dei generali non se ne resero
conto.
E’ singolare che ci
siano stati due generali con lo stesso cognome che si sono fatti notare per la
loro spietatezza. Non ho trovato riferimenti al fatto che fossero imparentati,
quasi che la loro fosse una sorta di tara genetica…
E’ vero, è strano, anche io ci avevo pensato, ma no, non
erano parenti.
Nel libro ci sono
parole anche per l’altra tragedia di Caporetto, quella della sofferenza dei
civili, dell’esodo e delle violenze subite. Non se ne parla molto: meriterebbe
forse un altro libro?
Sì, è un argomento che mi affascina. Anche qui c’è un vuoto
nella memoria e nella narrativa. Un milione di civili nell’Alto Veneto e nel
Friuli furono sfollati e come conseguenza ci fu il problema del profugato. Ho
incontrato solo alcune di queste odissee, è un mondo da scoprire. In occasione
del centenario ci sono paesi e comuni che stanno investendo per ricerche
storiche sui luoghi di permanenza dopo Caporetto.
Come ha fatto per
ritrovare il gergo di trincea?
Il gergo di trincea
è una dimensione affascinante. Ci sono 6 miliardi di cartoline scritte negli
anni di guerra. L’analfabetismo totale era poco presente: in realtà ci si
dichiarava analfabeti perché incapaci di confrontarsi con l’italiano. Le
lettere dal fronte sono spettacolari per le trovate ortografiche. Le difficoltà
maggiori erano date da gn o dal ch. Per la parola ‘campagna’, troviamo campanga o addirittura campangna. I soldati scrivono per far
sapere che sono vivi ma le parole possono costarti caro: uno si fece 4 anni di
galera per aver scritto che Gorizia non si poteva prendere. Dai primi mesi del
1916 non si parla più di guerra, si chiede della casa e delle bestie.
Significava, ‘io ci sono, non posso dirti altro’. Un’altra dimensione è che
questi soldati vengono da un mondo rurale e si trovano davanti a oggetti nuovi
per cui devono trovare parole: la mitragliatrice Schwartzlose diventa la squarcialossa.
Era necessario poi mascherare anche la comunicazione orizzontale: gli
ufficiali erano i taschini, o lasagne, o i caramella, mentre i carabinieri erano gli aeroplani. Ho trovato degli studi sul gergo di trincea, quello che
è stato difficile è stato usarlo nei discorsi diretti.
Ho ancora una
curiosità. Il Piave è sempre chiamato ‘la’ Piave, al femminile. Il Vecio stesso
si meraviglia che abbia cambiato genere dopo la guerra. Me ne meraviglio anche
io…
Nell’uso popolare due dei nostri fiumi erano femminili, la Piave e la Brenta. C’è un libro di memorie di Ulderico Bernardi che si
intitola “Cara Piave”. Il Piave è stato femminile almeno fino ai comunicati
ufficiali del 1917. Quando diventa fiume sacro alla patria diventa maschile. A
lungo andare, complice la scolarizzazione e la canzone ‘Il Piave mormorava…’, diventò definitivamente maschile.
l'intervista e la recensione (pubblicata sul blog il 2 di novembre) saranno pubblicate su www.stradanove.net
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