Voci di mondi diversi. Cina
il libro ritrovato
Zhang Ailing, “La storia del giogo d’oro”
Ed. BUR, trad. Alessandra
Lavagnino, pagg.139, Euro 8,60
E’ la scrittrice stessa, quella che
vediamo nella foto in copertina del romanzo “La storia del giogo d’oro”. Bella,
con quel taglio di capelli all’occidentale e l’abito di foggia cinese.
Intrigante, con lo sguardo a seguire qualcosa che non è dritto davanti a lei.
Un piglio deciso nel mento leggermente sollevato e il braccio piegato sul
fianco. Una lontana possibilità di sorriso sulle labbra. L’interessante
postfazione della sinologa Alessandra Lavagnino ci informa che Zhang (il
cognome che precede il nome, all’uso cinese) Ailing (adattamento cinese del
nome inglese Eileen con cui la chiama la madre) è nata a Shanghai nel 1920 in una famiglia
importante. La madre, una donna moderna che aveva studiato storia dell’arte e
lingue in Europa, aveva divorziato dal marito oppiomane e donnaiolo e aveva
insistito perché la figlia frequentasse una scuola prestigiosa piuttosto che studiare
a casa con un precettore. Sono particolari importanti per capire la
combinazione di tradizione cinese e modernità occidentale che ci colpisce nella
scrittrice.
“La storia del giogo d’oro”, un
piccolo capolavoro, è del 1943 e le procura fama immediata- nel 1952 Zhang
Ailing si trasferirà negli Stati Uniti, verrà completamente dimenticata nella
Cina di Mao per essere riscoperta negli anni ‘80 (la sua morte è nel 1995).
C’è una donna al centro de “La storia del
giogo d’oro”, in una vicenda ambientata nella brillante Shanghai del primo
Novecento. L’hanno fatta sposare al secondo Padrone di una ricca famiglia che
l’ha praticamente “acquistata” per questo secondo Figlio ammalato da sempre,
quasi un invalido. Lei è diventata la seconda Padrona, ha avuto due figli, ma
quanta fiele ha in corpo! Bella e ambiziosa, rabbiosa per trovarsi legata ad un
uomo che non è più in grado di soddisfarla, concupita dal terzo Padrone (che
forse piace anche a lei), disprezzata più o meno apertamente dagli altri membri
della famiglia perché i suoi hanno un negozio di olio di sesamo (persino le
serve bisbigliano spettegolando sul suo conto), conta solo sulla morte del
marito per ritrovarsi ricca. Che almeno sia d’oro il giogo che si deve
sopportare.
E invece non è così grande la fortuna che eredita, in parte scialacquata
dal terzo Fratello. In una società in cui il nome conta così poco che viene
cambiato secondo l’età nell’arco della vita, in cui si è chiamati con il posto
che si occupa all’interno di una casa o di una famiglia (la Padrona anziana, la prima
Cognata o la seconda Sorella), lei ritorna ad essere Qiqiao, la figlia di
quelli che hanno il negozio. Più rabbiosa e cattiva che mai, persino con i suoi
propri figli.
Come si vede in due scene sconvolgenti, quella in cui si fa
preparare la pipa dell’oppio dal figlio e inizia pure lui al vizio, e quella in
cui ordina che vengano fasciati i piedi della figlia tredicenne. Per furore,
rabbia, invidia. Per avere una compagna di sofferenze. Per rallentare e fermare
la vita di una possibile rivale femminile: Qiqiao sa benissimo che la pratica (ormai
in disuso, nel 1902 ci fu un decreto imperiale che invitava a sospenderla)
sarebbe stata ancora più dolorosa per una bambina di quell’età. Non finirà qui
la crudeltà di Qiqiao, diventerà ancora più sottilmente malvagia a mano a mano
che l’oro del giogo si perde nelle volute dell’oppio. E la schiavitù dorata
nelle stanze chiuse diventa quella legata ad un lettino, a una pipa, ad una
lampada da oppio.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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