Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
romanzo storico
il libro ritrovato
INTERVISTA A SARAH DUNANT, autrice de “La nascita di Venere”
Firenze rinascimentale: la cupola
del Brunelleschi domina una città incredula davanti a questo prodigio
architettonico, l’illuminata corte medicea ha favorito una straordinaria
fioritura d’opere d’arte, l’ideale neoplatonico di bellezza e bontà diffonde un
canone estetico in cui la sensualità si affina nella spiritualità. Nel 1492
muore Lorenzo il Magnifico e l’ordine della città è improvvisamente sconvolto-
l’esercito francese preme ai confini, mentre il frate domenicano Girolamo
Savonarola tuona dal pulpito contro i vizi, la corruzione, gli scritti pagani e
l’arte che distoglie dalla religione. E’ in questa atmosfera che si svolge il
romanzo “La nascita di Venere” della scrittrice inglese Sarah Dunant (Ed.
Tropea, pagg. 380, Euro 18,50), un intreccio di storia, arte e passioni che
inizia dalla fine, quando, alla morte di Suor Lucrezia, le monache del convento
le tolgono l’abito e scorgono il tatuaggio di un serpente che si snoda dalla
spalla allungandosi con una testa d’uomo verso il sesso.
Il racconto della vita
di Suor Lucrezia, al secolo Alessandra Cecchi, è il suo testamento, lasciato
alla memoria della figlia divenuta pittrice, come lei avrebbe voluto essere.
Non aveva ancora quindici anni, Alessandra, quando suo padre era tornato
dall’estero con un giovane pittore fiammingo. Era l’anno in cui era morto il
Magnifico, in cui si era sposata sua sorella, in cui anche lei, Alessandra, era
stata data in sposa ad un uomo molto più anziano, colto, di una raffinatezza un
po’ ambigua, che le avrebbe assicurato una libertà di movimenti che non avrebbe
mai potuto avere come ragazza nubile. La vita quotidiana, gli usi e costumi di
Firenze nel ‘400 vengono descritti nelle pagine del diario-testamento di Alessandra:
la famiglia, in cui i figli maschi godono di tutte le libertà e si danno a
gozzoviglie e libertinaggio, gli arredi delle case, la sontuosità delle stoffe
e il corredo nuziale della sorella, le squadre di Angeli del Savonarola che
terrorizzano i cittadini. Alessandra è intelligente, di una bellezza insolita
(ma c’è un segreto dietro la sua nascita e lo scopriremo alla fine), in grado
di citare Dante a memoria, di discutere di Aristotele e di Platone, di parlare
in latino, di ammirare affreschi e quadri con una sottigliezza interpretativa
che rivela come lei stessa si dedichi all’arte. Da una parte il rapporto con il
marito (e una traumatizzante scoperta la prima notte di nozze) che si trasforma
in un legame di affinità elettiva non immune dalla gelosia, dall’altra quello
con il pittore fiammingo, una passione giovanile, violenta e senza parole, che
si rivela nei tratti delle donne dipinte da lui, che darà il suo frutto nella
figlia di lei. La vita di Alessandra finirà nel convento che avrebbe voluto evitare
sposandosi, ma dove potrà anche, finalmente, dipingere. Stilos ha intervistato
Sarah Dunant nella sua casa fiorentina, a due passi da Santa Croce.
I suoi libri precedenti erano thriller, che cosa l’ha spinta a cambiare
genere, a scrivere un romanzo che parla di arte e di storia?
Quello che è bello, nello
scrivere dei thriller, è che si prende il lettore per il collo e lo si trascina
fino alla fine: è un genere perfetto per raccontare una storia, per obbligare
il lettore a continuare a leggere. C’è però un prezzo da pagare, per lo
scrittore: la trama diventa tutto e si perde la sottigliezza e la complessità
dei personaggi. Mentre scrivevo thriller, mi sentivo attratta dalle idee dietro
le parole e avvertivo la tensione tra la trama e le idee e alla fine ho sentito
che non potevo più scrivere questo tipo di storie. L’ultimo dei miei libri era
ambientato nella Firenze contemporanea, ma ero in crisi con la scrittura e sono
venuta a Firenze. Ho sempre amato la storia, ho studiato storia all’università,
e sentivo come una sfida il cercare di ricreare come sarebbe stato vivere nel
Rinascimento. Deve essere stato un po’ come negli anni ‘60 del ‘900, anni di
grandi cambiamenti, e io volevo scrivere un libro che desse la sensazione di
vivere in questo “coraggioso nuovo mondo”. E però c’era una lezione che avevo
imparato scrivendo thriller, cioè il piacere di invogliare il lettore a girare
la pagina, a proseguire nella lettura.
Lei ha una casa a Londra e una a Firenze: quando ha scelto di fare di
Firenze la sua seconda dimora? E come divide il suo tempo tra le due città-
l’una o l’altra secondo il suo umore?
Ho comperato questo
appartamento a Firenze cinque anni fa e all’inizio dividevo il mio tempo tra
qui e Londra. Adesso sto scrivendo un romanzo ambientato a Venezia e non è
proprio possibile scrivere a Firenze un libro che parla di Venezia, sono due
atmosfere contraddittorie. Ed è per questo che passo meno tempo a Firenze. So
che è banale dirlo, ma io amo Firenze, perché è una città con una fantastica
combinazione di giovinezza e vecchiaia, è imbevuta di storia e tuttavia ha una
vita moderna molto vitale, non si ha l’impressione di vivere in un museo o in
una città turistica. Amo soprattutto l’inverno a Firenze e, quando torno a
Londra dopo essere stata qui, mi sento piena di energia, come se avessi
spalancato le finestre della mia anima. Quando vieni a vivere in una città
nuova da adulto, hai la possibilità di reinventarti, perché nessuno sa chi sei.
In Inghilterra lavoravo in programmi culturali alla televisione e alla radio e
quello che mi piaceva a Firenze era la possibilità di essere anonima e iniziare
una nuova vita.
Il titolo del romanzo si riferisce ad un quadro di Botticelli, che cosa
ha a che fare Botticelli con la storia del libro?
Penso che per la gente
di oggi la “Nascita di Venere” di Botticelli sia il quadro più famoso del primo
Rinascimento, e, tuttavia, la maggior parte dei fiorentini dell’epoca non lo
aveva visto. Era stato commissionato da un Medici ed era finito subito in una villa
fuori Firenze. Uno dei personaggi del libro l’ha visto e può descriverlo.
Quello che c’è di straordinario nel quadro è la presenza di corpo e spirito-
non mi riesce di pensare ad altri quadri, prima di questo, in cui ci sia una
donna nuda che non sia una figura biblica. E così è veramente importante per la
storia dell’arte e per la storia della donna, per questa rappresentazione del
corpo femminile con un’aurea di spiritualità oltre che di fisicità.
Il periodo storico che ha scelto come sfondo per “La nascita di Venere”
è un periodo buio di tirannide religiosa: la sua scelta è stata motivata dalle
analogie con il nostro tempo?
Non all’inizio.
All’inizio ho scelto questo periodo perché sono una romanziera e volevo una
bella storia sulla nascita dell’arte e della libertà e il tentativo di
soffocarla. Ho iniziato il libro prima dell’11 settembre, poi, mentre scrivevo
del periodo di Savonarola a Firenze, ho incominciato a ricevere e-mail che mi
parlavano della condizione delle donne in Afghanistan- come non potessero
uscire di casa e dovessero indossare il velo- e degli omosessuali che venivano
perseguiti e della musica proibita. E la storia del Savonarola che raccontavo
diventava la stessa del tempo presente. Da allora abbiamo avuto molte versioni
dello scontro tra il fondamentalismo e il liberalismo, e non solo del
fondamentalismo islamico e quello cristiano, ma anche della cristianità
liberale e di quella fondamentalista. Sarei stata sciocca ad ignorare un
parallelo così potente con la situazione dei nostri giorni. Non l’ho cercato
intenzionalmente, è stata l’analogia di presente e passato che ha cercato me.
Un numero sempre maggiore di scrittrici rivolgono l’attenzione ad
artiste del passato: è una moda o è una maniera di rendere loro finalmente giustizia?
E il fatto che Alessandra non diventi una grande pittrice sta ad indicare tutte
le donne che avrebbero potuto diventare pittrici o musiciste o scrittrici se
solo avessero potuto imparare, se fossero state incoraggiate?
Non possiamo
riscrivere la storia, ci furono pochissime grandi artiste. Quando iniziai “La
nascita di Venere” sapevo che c’era una cosa che non potevo fare, e cioè non
potevo fare di Alessandra un tesoro perduto del Rinascimento. La realtà è che
la struttura sociale non permetteva alla donna di essere un’artista. Per
diventare un’artista nel ‘400 non era sufficiente volerlo, c’era anche un duro
lavoro, un apprendistato da fare: solo una ragazza che avesse un padre pittore
poteva farlo, come la figlia di Paolo Uccello. Quando, alla fine, Alessandra ha
una cappella da dipingere, era importante per me che lei capisse di non essere
una grande artista, ma soltanto una voce del coro, perché dovevo essere fedele
alla Storia.
Sì, l’ho fatto
intenzionalmente. Alla mia età, penso che non esista l’amore perfetto e volevo
scrivere un libro che dicesse, “guardate quanti tipi di amore ci possono
essere”. C’è l’amore madre-figlia, quello tra due anime creative, l’amore
sessuale, l’amore intellettuale. Penso che l’uomo perfetto debba avere un po’
del marito di Alessandra, un po’ del pittore e un po’ della madre. Per quello
che riguarda l’amore omosessuale- e il termine da usare per l’epoca è sodomia-
avevo letto i sermoni di Savonarola e di S. Bernardino da Siena che sono pieni
di riferimenti alla sodomia: per loro è il peccato più orrendo. Se ne parlavano
tanto, vuol dire che era molto comune. E ho trovato poi un libro molto
interessante, la tesi di un dottorando americano che aveva consultato i
registri delle polizia notturna di quei tempi. I vicoli della città si
riempivano di notte di coppie peccaminose, c’era molta prostituzione- ma quella
in fin dei conti era accettata. Ma c’erano anche molti omosessuali che venivano
arrestati, mentre si chiudeva un occhio se appartenevano a famiglie nobili.
Uno dei personaggi principali è il pittore fiammingo: perché “doveva”
essere fiammingo?
Prima di tutto perché
il Rinascimento fiammingo è molto diverso da quello mediterraneo. I fiamminghi
avevano una spiritualità profonda e mi interessava questo aspetto. E non volevo
che fosse un pittore famoso, volevo che fosse anonimo e volevo immaginare che
cosa volesse dire venire in Italia da un paese del Nord: il pittore è il personaggio
più vicino a me. Per me l’Italia è il colore, non avevo mai visto il colore
così, è la luce che è diversa, il clima…E poi era l’unica maniera per far
funzionare la trama, per portarlo in casa con Alessandra e rendere possibile il
loro incontro.
Il serpente tatuato sul corpo di Suor Lucrezia ha un viso maschile: a
parte il significato che questo riveste per la storia, è voluto il
rovesciamento della solita connessione, per cui tentazione e peccato sono
associate alla donna?
Certamente sì. Avevo
visto molti quadri con Eva nel
Giardino dell’Eden e il serpente tentatore con un viso di donna: i pittori
uomini dovevano raffigurarlo così. Dopo Freud sappiamo tutti quale potente
immagine sessuale sia racchiusa nel serpente. La faccia maschile del serpente è
un momento silenzioso di femminismo- per chi sa coglierlo.
la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
a breve troverete la recensione de "I Borgia" che ho appena terminato di leggere.
Nessun commento:
Posta un commento