venerdì 5 maggio 2017

André Aciman, “Ultima notte ad Alessandria” ed. 2009

                          Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
        Diaspora ebraica
        romanzo di formazione
        il libro ritrovato

André Aciman, “Ultima notte ad Alessandria”
Ed. Guanda, trad. Valeria Bastia, pagg. 335, Euro 17,00

Titolo originale: Out of Egypt


La mattina appena svegli, la prima cosa che si faceva a Mandara era correre alla finestra a vedere com’era il mare. A volte si sentivano le onde in lontananza perfino stando a letto e dal rumore si capiva già che tempo faceva. Oppure dalle grida dei bambini in spiaggia si intuiva che stavano giocando tra i cavalloni e che quindi c’era il mare mosso.

    Ci sono dei luoghi che hanno un nome straordinariamente evocatore, capace di per sé di suscitare immagini di grande fascino nella mente di chi lo sente o lo legge. Alessandria d’Egitto- e pensiamo ad una delle sette meraviglie del mondo, il faro che si ergeva sull’isola di Pharos all’imboccatura del porto, alto 120 metri e capace di illuminare fino a 46 chilometri di distanza con il suo fascio di luce, al deserto e all’incanto della laguna di Mareotide resa immortale da Lawrence Durrell, alla biblioteca famosa, andata distrutta forse nel 270.
“Ultima notte ad Alessandria”, il libro di André Aciman che è nello stesso tempo libro di memorie di famiglia e straordinario romanzo di formazione dello scrittore stesso, è colmo della magia di questa città in cui i suoi bisnonni trovarono rifugio scappando dalla Turchia agli inizi del secolo e dove lui è cresciuto fino al 1965, quando il presidente Nasser confiscò i beni degli ebrei e li espulse dal paese.

   I sei capitoli del libro scandiscono il tempo, diversificandolo con dei titoli che sottolineano- in maniera allusiva- chi sarà il personaggio principale delle pagine che seguono, o quali saranno gli anni dei ricordi. Così il primo, “Soldato, venditore, imbroglione, spia”, vede- come assoluto e trionfante protagonista- lo zio Vili, figura indimenticabile, proprio perché fu veramente un soldato (aveva combattuto nella prima guerra mondiale nell’esercito italiano), era stato un abile venditore (diceva, parlando degli ebrei, “Alla fine non siamo tutti venditori ambulanti?”- lui aveva iniziato vendendo fez per le strade di Vienna e aveva finito come banditore d’asta delle proprietà di re Faruk), ma anche un imbroglione e una spia per gli inglesi. Lo zio Vili, con le sue imprese, le sue battute, i suoi modi di dire che diventano parte essenziale del lessico famigliare (ad iniziare da quel “siamo o non siamo?” che diventa una sorta di leit-motiv e già vuol dire tutto), il suo atteggiamento battagliero da eterno vincente, potrebbe riempire di sé tutto il libro, e sembra quasi che a malincuore André Aciman lo spinga via dal palcoscenico, per lasciar venire alla ribalta gli altri ‘attori’ di questa commedia umana.
Perché la sua è una famiglia numerosa: zio Vili ha altri quattro fratelli e quattro sorelle, e poi ci sono i cognati e le cognate, c’è anche una zia Flora che arriva in fuga dalla Germania ed è la sorella dello zio Albert. Che è il nonno dello scrittore. Perché poi il quadro si restringe e, intorno allo scrittore bambino, ci sono soprattutto le due nonne, il padre e la madre. Il tempo scorre, nella memoria avanza a balzi, a volte fa qualche passo indietro e i ricordi si legano alle case, ai vetri oscurati di carta blu durante i giorni della guerra del 1956, quando la Storia entra di prepotenza nella vita del bambino. E poi c’è la scuola- l’odiata scuola inglese con le punizioni corporali-, e le lezioni private di arabo e poi di italiano e anche di greco- perché il personaggio di Ulisse ha colpito la sua immaginazione.

     E’ sufficiente avere un minimo di cultura ebraica perché ci venga un nodo in gola nel leggere il titolo del sesto capitolo, “L’ultimo seder, perché a questo punto sappiamo già che cosa leggeremo: il seder commemora la partenza degli antichi ebrei dall’Egitto e questo ultimo seder della famiglia precede la loro partenza forzata da Alessandria. Come un’antica maledizione, quella dell’ebreo errante, eternamente senza patria, condannato a ricominciare da capo in luoghi sempre nuovi, a scegliere ciò da cui non può separarsi e ciò che può invece abbandonare. Forse in una valigia si caccia dentro anche il cuore e la mente, i sentimenti e i ricordi, pigiando forte il coperchio perché chiuda. Perché si vuole riaprirla e ritrovarli, quando si sarà lontani. “Sentivo che a rendere la partenza così violentemente dolorosa era la consapevolezza che non ci sarebbe più stata un’altra sera come questa…che non avrei più avvertito l’improvvisa e sbalorditiva bellezza di quel momento quando, anche solo per un istante, mi ero scoperto a struggermi per una città che non mi ero mai reso conto di amare.”

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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