giovedì 9 febbraio 2017

Zadie Smith, “Della bellezza” ed. 2006

                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
      romanzo "romanzo"
      il libro ritrovato


Zadie Smith, “Della bellezza”
Ed. Mondadori, trad. Bernardo Draghi, pagg. 514, Euro 19,00

Howard Belsey, inglese, studioso di Rembrandt, vive in una cittadina americana insieme alla moglie, l’afroamericana Kiki, e tre figli. Quando un altro accademico suo rivale, il caraibico Monty Kipps, arriva dall’Inghilterra per insegnare nella sua stessa università, scoppia tra di loro un conflitto sul livello degli ideali e quello della professione, coinvolgendo le famiglie in una crisi di identità personale e di armonia di coppia. Eppure, quello che emerge dai contrasti è il valore della bellezza della vita umana.


INTERVISTA A ZADIE SMITH, autrice di “Della bellezza”

      L’omaggio a E.M.Forster è palese fin dalle prime righe del romanzo “Della bellezza” di Zadie Smith e i lettori che conoscono “Casa Howard” saranno deliziati di seguirne le tracce, riconoscendone i segni pur modificati e arricchiti per inserirli nel nuovo contesto del secolo XXI. La lettera di Helen Schlegel alla sorella  con cui iniziava il libro di Forster è qui sostituita da una e-mail di Jerome Belsey a suo padre; una Helen estatica annunciava il fidanzamento con Paul Wilcox, un Jerome esultante annuncia il suo con Victoria Kipps; là un telegramma e qui un  messaggio di posta elettronica che smentiscono quanto detto non arrivano a tempo a fermare l’intervento di un parente che si precipita sul posto. “Non siamo più nel 1910!”, dice Kiki Belsey, e infatti l’opposizione tra il mondo “dei telegrammi e della rabbia” dei Wilcox e quello dell’intelletto delle sorelle Schlegel è sostituito nel romanzo della Smith dal contrasto tra i liberali Belsey e i conservatori reazionari Kipps; le classi sociali nettamente distinte nel romanzo di Forster sono scomparse nella società multietnica dalle molte possibilità che Zadie Smith ritrae così abilmente, come già nel primo romanzo che l’ha resa famosa, “Denti bianchi”.
E’ come se Leonard Bast, il misero impiegato con ambizioni culturali di “Casa Howard”, ce l’avesse fatta ad elevarsi, perché l’inglese bianco Howard Belsey, figlio di un macellaio, è diventato un accademico e sua moglie Kiki, la cui trisavola era una schiava, è direttrice d’ospedale, nonché proprietaria della bella casa in cui abitano, lasciata in eredità alla nonna da un dottore bianco (forse un tentativo di mettere a tacere i sensi di colpa?). Ma c’è sempre un Leonard Bast in ogni società e in “Della bellezza” il suo posto viene occupato da un giovane di colore, Carl, poeta e musicista di strada che i Belsey incontrano ad un concerto- e qui Zadie Smith prosegue nel suo gioco con il testo di Forster: i risvolti comici del furto dell’ombrello di Leonard da parte di Helen Schlegel si ripetono in quello del lettore di cd preso per sbaglio da Zora Belsey.
      I Belsey contro i Kipps, dunque, in tutti i campi, ad iniziare da quello dell’arte: il pittore Rembrandt, soggetto di studio sia di Howard Belsey sia di Monty Kipps, viene glorificato da Monty e visto da Howard come un semplice artigiano per niente trasgressivo o originale; in contrasto con Howard, Monty Kipps è strettamente religioso e sostiene che l’uguaglianza è un mito, che la società multiculturale è un sogno, che le minoranze esigono una parità di diritti che non si sono meritata.
Per non dire che lui- il nero che “è arrivato”- continua a parlare con disprezzo dell’”uomo di colore”, come se si compiacesse a guardare gli altri dall’alto del suo successo, escludendoli. Ed è a questo punto, al di là dei vari episodi in comune che hanno il romanzo inglese di un secolo fa e quello della giovane Zadie Smith, che ci interroghiamo sulla possibilità dell’utopistico desiderio espresso nel motto introduttivo di “Casa Howard” che è poi anche la chiave di lettura di tutti i romanzi di Forster: “Only connect”. Fino a che punto è possibile connettere due mondi, due diverse concezioni di essere, due interpretazioni del proprio posto nell’ordine delle cose? Il quadro che rappresenta la Venere Nera o la Vergine Violenta- l’eredità discussa che nel libro della Smith sostituisce l’ambita casa di Mrs. Wilcox in Forster- è forse la risposta della giovane scrittrice, figlia di padre inglese e madre giamaicana: l’immagine è quella di una donna nera, interamente nuda, circondata da piante e uccelli tropicali. Rappresenta tutto, l’amore ma anche la gelosia, la bellezza e la purezza ma anche la vendetta e la discordia, la fortuna, la buona volontà e la salute. Sono temi che appaiono tutti nel romanzo di Zadie Smith che incominciava con la storia d’amore abortita tra l’ingenuo Jerome e l’esperta Victoria per poi esplorare l’unione coniugale di Howard e Kiki, sostenuta dalla generosità di lei, indebolita dai tradimenti di lui e definitivamente affossata dalle sue menzogne- pari a quelle del suo ipocrita rivale, Monty Kipps. Stilos ha intervistato Zadie Smith, che ha appena ricevuto l’Orange Prize per questo romanzo, il maggior premio inglese per un libro scritto da una donna.


“Della bellezza” è il suo terzo romanzo: come ci si sente ad essere così giovane ed avere già scritto tre romanzi?
    A volte mi sento soddisfatta e a volte mi sembra di avere fatto poco tra i 20 e i 30 anni. Anche scrivendo solo 500 parole al giorno, avrei potuto scrivere chissà quanto: sembra molto lavoro, ma non lo è. A volte mi pare che 10 anni della mia vita siano andati in fumo. Ho scritto tre romanzi ma, nella vita reale, è come se io non avessi fatto niente. Quando scrivo non mi occupo d’altro, tutto resta in attesa, sembra proprio che non faccia nulla e può essere irritante per chi mi sta vicino. Passo il tempo a rimuginare: forse sarebbe stato meglio avere una vera e propria occupazione per passare il tempo.

“Della bellezza” è un omaggio a Forster e, in particolare, a “Casa Howard”: che cosa la attrae in Forster? “Casa Howard” è il romanzo che preferisce di Forster o l’ha scelto perché le offriva il materiale migliore per sviluppare il suo romanzo?
    No, paradossalmente “Casa Howard” non è il mio libro preferito di Forster, quello che preferisco è “Maurice”. Mi è difficile rispondere, anche perché, da quando è stato pubblicato il romanzo, la mia passione per Forster è andata scemando, credo che non lo leggerò mai più. Originariamente sono stata attratta dall’empatia di Forster, dalla sua volontà di esprimere simpatia verso gli altri. Forster non è un esteta come Henry James, non è un moralista come Jane Austen, è un inglese della periferia, è un uomo di compagnia, è socievole. Mi piace Virginia Woolf ma- supponiamo che io potessi incontrare Virginia Woolf e le chiedessi di prendere una tazza di tè insieme: lei mi direbbe certamente di no, Forster direbbe, “Sì, con piacere”. Forster era una persona molto generosa che amava stare con gli altri, sentiva che la vita vera è quella intima: avrebbe tradito il paese per un amico.


Questa volta solo una piccola parte del romanzo si svolge in Inghilterra e la maggior parte negli Stati Uniti, come mai?
    L’ho fatto anche per mettermi alla prova. In parte c’è stata, alla base, la mia paura di diventare troppo inglese, il prossimo libro, però, sarà ambientato di nuovo a Londra. Mi piaceva l’idea di variare, di descrivere un altro paesaggio, una diversa maniera di stare nel mondo. E poi l’America è, oltre all’Italia, il paese straniero che conosco di più e che amo.

 Quando è stata per la prima volta in Italia?
     L’Italia è stata il primo paese straniero che ho visitato, quando avevo 14 anni e sono stata invitata dalla famiglia di un’amica ad andare con loro nella casa che avevano affittato a Tellaro. E a novembre verrò a vivere a Roma per un anno, perché voglio imparare l’italiano. Le mie letture mi avevano dato un’idea romantica dell’Italia e ho trovato che la realtà coincidesse appieno con quell’idea. Per un inglese è un sollievo gustare la gioia cattolica del piacere. Perché qui la gente si diverte e poi chiede perdono, non si macera nella colpa. Bisogna aver vissuto nella cupezza dell’atmosfera protestante per capire che cosa voglio dire.


Uno dei cambiamenti più interessanti che ha fatto, rispetto al romanzo di Forster, è quello di opporre idee reazionarie al liberalismo, al posto dei due mondi degli affari e delle idee: è il divario che avverte maggiormente nel nostro mondo?
    La realtà è che ad un liberale sembra sempre che gli altri siano tutti reazionari. Monty Kipps è un perverso più ancora che essere un reazionario. Mi piacciono i tipi perversi, trovo che il conformismo ideologico sia noioso. Mi piace la provocazione, mi piace chi è volontariamente provocatorio e Monty è così, con le sue uscite paradossali ed estreme. I liberali trovano impossibile che i reazionari siano sinceri e, invece, a me pare che ci siano degli aspetti del pensiero conservatore che sono sinceri e fanno parte degli istinti umani e in quanto tali vanno rispettati.

Uno dei punti più discussi nel romanzo è il diritto allo studio a cui si oppone Monty Kipps. Come pensa si possa gestire questa esigenza messa in luce di recente dal numero di volontari per la guerra in Iraq che non avevano altre alternative?
    Il diritto allo studio in un’epoca in cui praticamente moriremo tutti sul posto di lavoro è una priorità: quei tre anni dedicati allo studio sono una necessità per tutti, rappresentano una libertà di cui tutti dovrebbero godere. Ed è demoralizzante vedere che non sia la meritocrazia il criterio di ammissione alle università. In America c’è questa legge dell’azione positiva, ma è demoralizzante dovere l’accesso all’università al fatto di essere nero. Penso che ci dovrebbe essere una procedura selettiva caso per caso. Quando feci domanda a Cambridge, era chiaro che la mia preparazione non era buona quanto quella degli altri e che i miei voti non sarebbero stati uguali ai loro, ma i miei esaminatori hanno fatto una scommessa su di me. Non si possono basare le ammissioni su una legge: una legge è troppo rigida, non può andare bene per un procedimento selettivo del genere.

Il romanzo è anche l’anatomia di una coppia: è essenziale la fedeltà nel matrimonio?
     Sono sposata da troppo poco tempo per sapere come reagirei in caso di tradimento. Chiunque sa che ci sono diverse maniere per non essere fedeli. Il mio impegno spirituale e mentale è una cosa molto profonda, non tradirei mai, come non tradirei un amico. Nella coppia Kiki-Howard, Kiki sopravvivrà sempre, il problema è quale vita avrà Howard, se imparerà qualcosa. Kiki resta nel matrimonio per amore di lui, perché le donne sono emozionalmente più indipendenti.

I Kipps contro i Belsey: i Belsey ci piacciono di più, anche se Howard è il meno amabile di loro e Levi il più simpatico. Levi assomiglia a qualcuno che conosce?
    Il personaggio di Levi è basato sul mio fratello minore. Da bambina ero solita pensare che la mia vita sarebbe stata più felice, che avrei trovato le risposte a tutto, che avrei capito tutto, quando avessi avuto più cultura, quando fossi stata più istruita. E poi ti imbatti in qualcuno come Levi che non ha alcuna idea della cultura, non gliene importa niente ed è felice lo stesso. Mi interessa il mondo in cui si muove mio fratello, così limitato e in cui lui si trova così bene. Faccio un esempio, forse ne parlo anche nel libro. Stavamo aspettando insieme un treno sul marciapiede della stazione e io leggevo un libro su Enrico VIII. Mio fratello mi ha chiesto perché lo leggessi e gli ho risposto che mi interessava la storia. Di rimando lui mi ha chiesto, “Perché?”. Ecco, mio fratello è tutto lì, eppure anche in questa vita limitata può trovare felicità e soddisfazione più di altri.

C’è una scena in cui Carlene Kipps dice che quello che importa nella vita è per chi si è vissuto- e lei ha vissuto per l’amore. Non le è mai importato del mondo ma le è importato della sua famiglia. Kiki Belsey, così generosa in tutto, è un passo avanti a Carlene? Perché Kiki sembra essersi interessata sia della sua famiglia sia del mondo.
    Sì, penso di sì. Mi stupisce sempre osservare come ci siano donne con una grande famiglia che si dedicano con amore ai figli derivandone grande felicità e ce ne siano altre che invece si dedicano alla politica, ad esempio, e tutto il resto è secondario. Kiki è più completa di Carlene e forse, poi, Carlene appartiene ad un’altra generazione, è sottomessa all’idea della maternità. Kiki sembra avere una capacità più ampia di affetti e di interessi.

Il romanzo termina con la descrizione di un ritratto della moglie di Rembrandt dipinto dal pittore: è questo che significa il romanzo “Della bellezza”? che la bellezza dell’arte coincide con quella dell’amore?

    La mia vita è molto esplicita riguardo a questo: nella mia vita c’è l’arte e il mio rapporto personale con mio marito. Per molti scrittori l’arte ha preso il primo posto, probabilmente  a vantaggio dell’arte, ma per me l’amore è la cosa più importante nella vita. Credo in quello, nell’amore e nell’apprezzamento del mondo. Ma rinuncerei a tutto per amore. Spero di non doverlo fare. La bellezza è la bellezza dell’amore, prima di tutto.

la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos


    
                                            

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