vento del Nord
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Henning Mankell, “L’uomo che sorrideva”
Molti provano la mia stessa sensazione, sentono cioè che in verità abbiamo acquisito conoscenze ed esperienze in un tempo in cui tutto era diverso, quando i crimini erano più semplici, i valori morali più saldi, e l’autorità della polizia non era messa in discussione.
Inizia con l’immagine della nebbia il nuovo romanzo di
Henning Mankell, “L’uomo che sorrideva”, pubblicato da Marsilio. La nebbia
della Scania, “come un animale da preda che si muove silenziosamente”- pensa
l’anziano avvocato Gustaf Torstensson- e sono parole che riecheggiano un famoso
verso di T.S. Eliot che paragonava la nebbia a un più domestico felino. Ma il
romanzo di Mankell è un thriller e l’inquietudine di Torstensson si comunica al
lettore nell’attesa che una qualche bestia che può avere forma umana esca da
quella nebbia, come poi accade, e colpisca l’avvocato. E però è anche una
nebbia dello spirito, quella che avvolge il commissario Kurt Wallander che
incontriamo nel secondo capitolo, mentre cammina su una spiaggia deserta
sospinto da un vento dantesco, incapace di riprendersi dal senso di colpa che
lo opprime da quando ha ucciso un uomo, alla fine del romanzo precedente, “La
leonessa bianca”.
Poco importa che lo abbia fatto per legittima difesa, la
morte che lui ha dato ad un altro gli fa inconsciamente desiderare la morte
anche per se stesso, e Wallander ha cercato di distruggersi nell’anno che è
passato, tra alcol, letti di donne sconosciute in luoghi remoti e ricoveri
ospedalieri. Fino a cercare un po’ di pace su una spiaggia della Danimarca. Ma
qualcuno, il figlio di Gustaf Torstensson, lo viene a cercare per chiedere il
suo aiuto, convinto che il padre non sia morto in un incidente d’auto come da
rapporto della polizia. Kurt è ancora in congedo, non sa se riuscirà a tornare
a svolgere il suo lavoro e sarà proprio la morte del giovane Tortsensson,
chiaramente assassinato, a dargli la forza di ricominciare, di uscire da quella
nebbia.Non ci delude mai, un romanzo di Henning Mankell. Perché non ha bisogno di mezzi spiccioli per sostenere la tensione della trama. Ne “L’uomo che sorrideva” è facile capire che l’uomo del titolo, il signore del castello cinto da mura e sorvegliato da corpi di vigilanza addestrati, nasconde qualcosa dietro l’enigmatico eterno sorriso: non si può diventare così smisuratamente ricchi in maniera onesta. Eppure leggiamo d’un fiato fino all’ultima pagina, per scoprire le dimensioni di un Male che noi, come Kurt, non abbiamo la fantasia per immaginare, per chiederci che cosa succede a un uomo comune quando si trova impigliato in una tela di ragno, per saperne di più sul commissario Wallander: ci sono dei flashback illuminanti per il rapporto di Kurt con suo padre, la comprensione improvvisa del perché la gente comperi quei quadri tutti uguali che il padre dipinge, con il gallo cedrone e il sole al tramonto- perché la gente ama vedere un sole che non tramonta mai e suo padre aveva impedito al sole di tramontare-, la sua nostalgia per Baiba Liepa (la donna che ha conosciuto nella storia raccontata ne “I cani di Riga”), l’accordo che trova con la nuova collega Ann-Britt Höglund con cui riesce a parlare di altro che del caso, del perché lui o lei abbiano scelto di entrare in polizia, del sogno che è dentro ognuno di noi. Descrizioni e dialoghi, passaggi da una narrativa in terza persona ad una in prima persona che suggerisce una sorta di flusso di coscienza- un romanzo poliziesco che è più di un romanzo poliziesco.
la recensione è stata pubblicata su www.lettera.it
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