Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
il libro ritrovato
Thomas Savage, “Il potere del cane”
Ed. Ponte alle Grazie, trad. Luisa Corbetta, pagg. 276, Euro 14,00
Uno scenario del FarWest per il
libro “Il potere del cane” dello scrittore americano Thomas Savage: un ranch
nel Montana, con le mandrie che pascolano nei territori che una volta erano
appartenuti agli indiani, gli inverni freddissimi a 50 sotto zero. E’ il 1925 e
due fratelli sono proprietari del ranch, Phil e George. Una pagina di forza
brutale in apertura del libro, che inizia con la frase: “Era sempre Phil a
occuparsi della castrazione”, e il personaggio di Phil è già tutto in queste
parole, come quello di George nell’accenno che “arrossiva” a sentire i discorsi
crudi del fratello. Un modello vecchissimo, quello dei fratelli che sono l’uno
l’opposto dell’altro, Caino e Abele, Caleb e Aaron nella “Valle dell’Eden” di
Steinbeck. Il romanzo di Savage è giocato su questo contrasto, ma con un
risvolto particolare, in un crescendo di drammaticità che finisce in maniera
inaspettata. Phil è il più intelligente, quello più prestante fisicamente, che
svolge i lavori duri del ranch, a contatto con le bestie. George è lento, goffo, il fratello lo chiama “mangione”
(“Fatso” in inglese), si occupa della gestione economica del ranch.
Piccoli dettagli
accumulati costruiscono il personaggio di Phil come quello di un uomo che
accentua volutamente tutto ciò che contribuisce all’immagine della sua virilità
e anche il suo disprezzo per gli indiani, gli Ebrei, gli uomini che lui chiama
“femminucce”, fa parte della visione maschile del mondo che, come ben presto
sospettiamo, nasconde la sua omosessualità repressa. Quando George sposa Rose,
una vedova con un figlio, e la porta a vivere al ranch, il contrasto esplode.
Di nuovo, Savage è straordinario nel creare lentamente la tensione
dell’atmosfera, l’ansia nervosa di Rose che cresce sotto i silenzi sprezzanti e
la risata sferzante di Phil, la gentilezza adorante di George che il fratello
prende per dabbenaggine e che non riesce ad impedire che la moglie diventi
un’alcolizzata. Sembra che Phil la spinga consapevolmente verso l’orlo
dell’abisso, come già aveva contribuito al salto finale del primo marito di
lei, mentre lo stile di Savage, pur mantenendo sempre la narrazione in terza
persona, riesce a cambiare registro, con un’altra scelta di vocaboli e di
intonazione, dandoci l’impressione di leggere i pensieri nella mente di Phil:
perché è certamente lui che trasforma la dolce Rose, sempre sorridente, in
“Rosina la beona”, e suo figlio, il ragazzo effeminato che ha già sofferto per
il suicidio del padre, nel “Piccolo Lord” e nella “Signorina Deliziosa”.Eppure Phil si sente attratto dal ragazzo, perché questi, come già in passato il mitico Bronco Henry che appare solo nei racconti di Phil e di cui sappiamo l’importanza e il ruolo alla fine, riesce a vedere nella collina la figura del cane che corre- e per Phil le persone si dividono in due gruppi, chi vede il cane (ed è simile a lui) e chi vede solo delle rocce (ed è da disprezzare). Sarà questo ragazzo, che Phil pensa di manovrare per distruggere del tutto Rose, a salvare la madre dal “potere del cane”.
La potenza di un dramma
naturalista in uno splendido romanzo.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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