Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
Shoah
il libro dimenticato
Martin Amis, “La zona d’interesse”
Ed. Einaudi, trad. Maurizia
Balmelli, pagg. 301, Euro 20,00
Sono state le parole di Primo Levi a dare a
Martin Amis la chiave di scrittura de “La zona di interesse”, il suo secondo
libro sull’Olocausto dopo “La freccia del tempo”. Alla domanda su come
spiegasse l’odio fanatico dei nazisti contro gli ebrei, Primo Levi aveva
risposto che quello che è avvenuto non si può comprendere, anzi, “non si deve comprendere”, perché
comprendere è quasi giustificare. Pensando a questo, Martin Amis si è sentito
libero di scrivere questa farsa nera, questo libro swiftiano nella sua
grottesca rappresentazione del mondo concentrazionario, usando una selvaggia
ironia che riesce a rendere disgustoso e spregevole tutto ciò di cui parla.
Il luogo è Auschwitz, chiamato Kat Zet,
così come Cracovia è sempre chiamata la Città Vecchia e il Führer non appare mai in queste pagine
con il suo nome- anzi, non appare affatto, ma ci si riferisce a lui con dei
termini di disprezzo: Grofaz, il Priapo illibato, il Dioniso astemio, il
Tyrannosaurus Rex vegetariano. L’anno è il 1942, quello che vede la caduta di
Stalingrado e l’inizio della fine per il Terzo Reich che avrebbe dovuto essere
millenario. Tre sono le voci narranti: il Kommandant Paul Doll, Angelus Thomsen,
ufficiale di collegamento tra l’industria bellica e il Reich, e Szmul, il capo
dei Sonderkommando, il corvo del crematorio (hanno un significato i nomi? Doll
come una bambola, un fantoccio che esegue gli ordini, il pseudo angelo che ha
un comportamento assai dubbio, e Szmul, Samuele, e vuol dire ‘il nome di Dio’:
dov’è Dio nei campi di concentramento?).
Tutti i nazisti rappresentati nel libro di Amis sono delle caricature,
sono esseri grotteschi le cui caratteristiche naturali vengono esaltate e
distorte attraverso una lente di ingrandimento alla maniera di Gulliver nel
paese di Brobdingnag. Così Paul Doll, un mediocre borioso e beone, esaltato
dall’esercizio del potere, frustrato nella sua virilità perché rifiutato dalla
moglie che si fa beffe di lui, che si esprime in un linguaggio che sembra
ridicolizzare il gusto delle perifrasi ingannatrici del regime, che non può
ammettere che è stata la moglie a fargli un occhio nero e allora accusa Szmul
(con le immaginabili conseguenze), che è così immerso nella problematica
mortifera del campo, di come eliminare ‘pezzi’ più in fretta, che si trova ad
immaginare come gassare tutto il pubblico del concerto a cui assiste. Così
anche Angelus Thomsen, personaggio ambiguo così come è ambigua la sua
sessualità.
Thomsen si tiene ai margini, protetto dalla parentela con Martin
Bormann, e alla fine- quando la catastrofe è in vista- passerà tra gli
oppositori, si metterà al servizio degli americani come interprete. E cercherà
dappertutto, nella Germania in macerie, la donna di cui si è innamorato nel
campo (non il luogo adatto per una storia d’amore), Hannah Doll. Quando la troverà,
Hannah è disamorata dell’amore, nulla e nessuno potranno farle dimenticare
quello che ha visto, il lato peggiore dell’uomo. E l’odore, l’odore. Szmul,
infine. La vittima che si deve occupare dei corpi delle vittime. L’unico ad
aver mantenuto una sua umanità, nonostante le apparenze. Che cerca di salvare
lo 0,01 per cento di chi arriva, bisbigliando una ‘dritta’: Ihr seit achzen johr alt, und ihr hott a
fach. Hai diciott’anni e hai un mestiere. Che si oppone a Doll in un gesto
glorioso di grandezza.
Martin Bormann |
Niente mai viene detto apertamente al Kat Zet. Si usa sempre la lingua
orwelliana del nazismo- il Prato della Primavera che sembra muoversi in una
spinta vitale è la terra che ribolle dei cadaveri, l’Aktion, la Produktive
Vernichtung. Si discute di numero minimo di calorie, di avvicendamento di mano
d’opera, di treni carichi di persone che sono solo numero di ‘pezzi’. Si
ridicolizza la credulità dei deportati che accettano le fantasiose istruzioni
che vengono loro date, mentre le parole fiorite di queste- le invitanti offerte
a fare una doccia per eliminare possibilità di infezioni dopo il viaggio, i
suggerimenti di dove lasciare gli abiti per poi ritrovarli- sono la beffa
suprema, cinismo elevato ad arte.
Il libro termina con un breve capitolo sul ‘dopo’, su chi è stato
condannato, su chi è riuscito a fuggire, su chi non si capacita che il Reich
abbia fallito e si sente una vittima, su chi- e sono i più- intona il nuovo
‘inno nazionale’ che recita “Ich Wusste Nichts Uber Es” (Io Non Ne Sapevo
Niente), sulla domanda che continua ad essere impossibile non porsi, di come
sia stato possibile che ‘la più colta e raffinata nazione che il mondo avesse
mai visto’ abbia potuto piegarsi ‘a una tale sfrenata, spropositata ignominia’.
Nessun commento:
Posta un commento