vento del Nord
Shoah
FRESCO DI LETTURA
Incontro con Majgull Axelsson, autrice di “Io
non mi chiamo Miriam”
Inizia con il parlarci di sé, Majgull
Axelsson, in un pomeriggio di questa intensa settimana milanese, fitta di
eventi ed incontri per Bookcity. Ha
fatto la giornalista per venticinque anni, poi ha scritto un romanzo-documentario su una ragazza coinvolta nella prostituzione infantile e si è
sentita libera. Da qui la decisione di non fare più la giornalista, di restare
a casa e diventare una scrittrice. Il suo romanzo “Strega di aprile” vinse un
grosso premio letterario in Svezia, il che mise fine ad ogni problema economico
ma diede inizio anche a tutta una serie di aspettative su di lei. Non sapeva
che cosa avrebbe scritto dopo quel primo romanzo, ma voleva scrivere dei
tumulti del 1948, quando un gruppo di persone, a Jönköping,
si mise a dare la caccia agli stagnini- gente di origine rom che si era
mescolata agli svedesi. Quelli che ora si chiamano nomadi, allora vivevano in
una specie di ghetto e nel 1948 un uomo, un autista di camion, iniziò ad
insultarli, facendo poi irruzione, insieme ad altri, nella zona dove vivevano
questi rom. Un giornale scrisse un articolo in termini molto volgari parlando
di loro e sostenendo gli attaccanti e finì che un giorno si radunarono più di
mille persone gridando, ‘Via gli stagnini! A morte gli stagnini!”, e scagliando
pietre contro di loro. Arrivò la polizia che portò gli stagnini in prigione per
salvarli dalla furia.
Era il 2011, o il 2012, quando Majgull
Alexsson andò a Jönköping
per cercare di saperne di più su quei fatti. E, proprio mentre era là, vedendo
la chiesa e l’abitazione che c’era accanto, ebbe l’idea del personaggio- di
dove abitava, del suo nome e di quello che le era capitato durante i tumulti.
Seppe che la sua protagonista era sopravvissuta all’Olocausto ed era
terrorizzata. In seguito Majgull andò ad Auschwitz per fare ricerche su quello
che accadde ai rom durante l’Olocausto.
C’era un campo all’interno di
Auschwitz, lo Zigeunerlager, dove vennero ammassati i rom o zingari. La
scrittrice riuscì a trovare molte informazioni nella libreria di Birkenau.
Tutti i dettagli storici del suo libro sono veri. I personaggi, Miriam, il
fratellino Didi, la cuginetta Anusha, sono fittizi ma tutto quello che avvenne
è storicamente corretto. Malika/Miriam sopravvisse, anche se fu sul punto di
diventare un muselmann, un morto vivente, uno di quegli scheletri ambulanti che
si erano lasciati andare rinunciando a lottare per la vita. L’amica norvegese
la salvò. C’erano molti norvegesi ad Auschwitz, prigionieri politici. C’erano
meno danesi perché erano riusciti a mettersi in salvo, trasportati in barca in
Svezia- ed è qualcosa che fa onore alla Svezia. Un’altra cosa che fa onore alla
Svezia è l’aver accolto tutti i prigionieri che il principe Folke Bernadotte
riuscì a strappare a Himmler con i negoziati. Perché quando la Croce Rossa
svedese ebbe il permesso di andare nei campi e prelevare i prigionieri politici
norvegesi, naturalmente portò via anche altri prigionieri: 25000 prigionieri
arrivarono in Svezia nel 1945. E fu così che la Miriam del romanzo decise di
continuare a mentire.Rosa Taikon |
Majgull
Axelsson ci racconta anche un dettaglio curioso riguardo allo spunto iniziale
del libro- il braccialetto d’argento di manifattura zingara. C’è una famosa
creatrice zingara di gioielli in Svezia: si chiama Rosa Taikon. Oltre ad
appartenere ad una famiglia di artisti (sua sorella Katarina era attrice e
scrittrice, nonché politicamente attiva nella difesa dei diritti umani), oltre
a creare dei gioielli che hanno imposto uno stile inimitabile, Rosa Taikon si è
anche battuta per rivendicare i diritti dei rom.
Katarina Taikon |
Le chiedo qualche informazione in più sugli stagnini che nel suo romanzo
sono chiamati “tattare”: da dove viene questo nome?
I tattare sono quelli che in Germania
sono chiamati Sinti. In Svezia, nel XVII e nel XVIII secolo, eravamo sempre in
guerra con la Russia, nonché con mezza Europa. Molti di quelli che erano andati
a combattere avevano sposato delle donne straniere mentre erano lontani e,
tornando in patria, non venivano bene accolti dalle comunità in cui avevano
vissuto prima. In Russia avevano sentito parlare dei tartari e il nome con cui
questi reduci vennero chiamati era la deformazione di ‘tartari’, ‘tattare’.
Oggi dobbiamo accettare di chiamarli ‘nomadi’, da non confondersi con gli
itineranti irlandesi che arrivano ogni anno per lavori stagionali, che lavorano
male e raggirano le persone.
Ma i tumulti contro i tattare ebbero luogo
solo a Jönköping e solo nel 1948?
Sì, e il ricordo di quello che accadde
tormentò gli abitanti di Jönköping
per anni- oggi c’è un monumento che lo ricorda. E pensare che Jönköping è il luogo con
il maggior numero di chiese in Svezia! Nel 2014 i neonazisti decisero di fare
una manifestazione a Jönköping
e tutte le chiese suonarono le campane per avvisare di tenerli lontani. Gli
abitanti di Jönköping hanno imparato la lezione!
Mi ha molto colpito anche la malattia di
cui muore Didi, il fratellino di Miriam. Il noma- non ne avevo mai sentito
parlare. Era un esperimento di Mengele?
No,
affatto. Anzi, paradossalmente fu l’unico esperimento ‘umanitario’. Interessato
dalla trasformazione fisica dei bambini per denutrizione, il dottor Mengele
diede ordine di dare loro qualcosa in più da mangiare. Ed in effetti i bambini
sembravano riprendersi. Poi, privati nuovamente del cibo, il male faceva il suo
corso devastante, scavando un buco nelle faccette dei bambini.
Conosciamo le cifre del genocidio ebraico.
Quanti sono stati i rom morti nei campi di concentramento? E quali sono stati i
paesi da cui furono deportati in numero maggiore?
Il
problema dei rom è che non ci sono dei censimenti della loro popolazione. Si parla
di un numero che va dai 500.000 al milione di rom uccisi nei campi. Un numero
di gran lunga inferiore a quello degli ebrei, ma si tratta anche di un gruppo
molto più piccolo. Facendo le proporzioni, quindi, il numero dei rom morti per
mano nazista è quasi uguale a quello degli ebrei. La provenienza era per lo più
la Germania, la Polonia e l’Ungheria.
Come ha accolto la Svezia, alla fine della
guerra, i treni della Croce Rossa con i profughi? Possiamo fare un parallelo
con l’accoglienza riservata oggi alle ondate di immigrati?
Furono
accolti in maniera molto migliore di quella che riserviamo agli immigrati oggi.
Ad Aneby, il villaggio che ho preso io in osservazione, arrivarono 500
rifugiati. Quell’estate i bambini finirono prima le lezioni scolastiche perché
i rifugiati potessero essere alloggiati nelle scuole per il periodo di
quarantena. La sala dei concerti fu aperta per accogliere gli sfortunati ospiti.
Tutti gli abitanti del villaggio si prestarono per portare cibo. Gli uomini si
misero al lavoro per costruire letti a castello e le donne per cucire delle
imbottite con un ripieno di carta di giornale in mancanza di piume. Tutti
diedero anche capi di vestiario. La maggior parte dei rifugiati ritornò poi nei
paesi da cui erano venuti, pochi di loro restarono in Svezia, alcuni emigrarono
negli Stati Uniti. Furono molti quelli che morirono perché, nelle condizioni di
denutrizione in cui si trovavano, non riuscivano a trattenere quello che
mangiavano.
Per me è stato terribile immergermi nelle
ricerche di quello che accadde nei campi di concentramento. Ho letto molto,
anche i libri di Remarque, di Primo levi, di Elie Wiesel. Non riuscivo a
dormire la notte, avevo gli incubi. Alla sera, all’ora di andare a letto,
dicevo a mio marito, “E’ ora di tornare nel campo”.
l'intervista è stata pubblicata su www.stradanove.net
l'intervista è stata pubblicata su www.stradanove.net
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