Voci da mondi diversi. Russia
biografia romanzata
seconda guerra mondiale
il libro ritrovato
Ludmila Ulitskaya, “Daniel Stein, traduttore”
Ed. Bompiani, trad. Emanuela
Guercetti, pagg. 555, Euro
Titolo originale: Daniel’ Štajn, perevodčik
Quando ero entrato in servizio presso la polizia, avevo prestato
giuramento di fedeltà al Führer. Più tardi, come partigiano russo, prestai
giuramento di fedeltà a Stalin. Ma non si trattava di veri giuramenti, ero
costretto a farli. A quel prezzo non salvavo più soltanto la mia vita, ma anche
quella di altri.
‘Come ogni grosso libro, anche questo mi sfinisce’, confessa Ludmila
Ulitskaya in una lettera a Elena Kostioukovitch a cui manda in lettura il libro
che sta scrivendo e che noi leggiamo, “Daniel Stein, traduttore”. E se ne può
ben capire la ragione, come si può comprendere il tempo che è stato necessario
alla scrittrice russa per esaminare il materiale, farne una scelta e
rielaborarlo nel romanzo. Perché la storia di Daniel Stein è la storia vera di
Oswald Rufeisen, l’ebreo polacco che riuscì a far fuggire 300 persone dal
ghetto di Mir, in Bielorussia, e che poi si convertì al cattolicesimo,
diventando frate, e che, infine, in Israele fondò una Chiesa
giudaico-cristiana. Una vita come quella di Daniel Stein contiene molte vite, e
in ognuna di queste entrano ed escono una quantità straordinaria di persone,
ciascuna con il suo vissuto- lo sfinimento di Ludmila Ulitskaya è quello che si
prova quando ci sembra che il cuore e la mente non possano contenere niente
altro, nessuna nuova emozione, che i nostri occhi non abbiano più lacrime per
l’orrore in cui ci siamo imbattuti.
La narrativa non è lineare, e questo è uno
dei motivi della straordinaria ricchezza del romanzo: si inizia con Ewa
Manoukian, che parla da Boston, nel dicembre del 1985, e si termina nel
dicembre del 1995, con il funerale di frate Daniel in Israele. Nelle 550 pagine
di mezzo, le date si spostano avanti e indietro, risalendo ad un tempo
anteriore al 1985 con una lettera datata 1946, in cui un amico
scrive al fratello di Daniel comunicandogli il suo stupore per aver ritrovato
Daniel vivo e in convento!! E il racconto non è uno solo, e non è neppure in
terza persona, bensì è composto da lettere, da stralci di rassegna stampa, da
documentazioni segrete dell’archivio del KGB, comunicazioni sempre segrete del
clero, telegrammi, voci registrate su nastro, frammenti di conversazioni,
appunti del dottor Hantman che aveva vissuto nel ghetto, pezzi di lezioni di un
professore di teologia, mentre è Daniel stesso che parla della sua vita in un
discorso agli studenti di Friburgo.
E’ lui, Daniel, il collante di tutte le
storie. Daniel ‘il traduttore’, non solo perché, con il suo perfetto
bilinguismo tedesco-polacco, aveva lavorato come interprete per la Gestapo (ed era così che
aveva saputo in anteprima dell’operazione Jod, riuscendo a far fuggire dal
ghetto 300 ebrei), ma anche perché, secondo l’etimologia del verbo ‘tradurre’,
Daniel ‘fa passare’, Daniel è un traghettatore di anime: dalla prigionia alla
libertà, dall’isolamento di una religione ad un’altra più ampia. “Daniel ha
fatto del suo corpo un ponte sopra l’abisso incolmabile che separa giudaismo e
cristianesimo”, sintetizza qualcuno, parlando di lui. Perché Daniel, male
accetto agli ebrei che lo considerano un traditore, inviso ai cattolici che lo
guardano con sospetto, straniero nella sua terra perché Israele non è ancora lo
Stato laico che ha elaborato una definizione di chi possa definirsi ebreo, non
teme nessuno- aveva sfidato i nazisti e ora non teme il Vaticano, omettendo la Professione di Fede
durante la celebrazione della Messa e non nascondendo nei suoi discorsi che
cosa pensi della dottrina della Chiesa che, secondo lui, non è affatto quella
originale. La religione di Daniel è giudaico cristiana, è un ampliamento
dell’ebraismo, è l’ebraismo dopo il messaggio di Cristo. E basta. I dogmi della
Trinità e della Vergine Maria sono venuti dopo il IV secolo, fanno parte della
religione greco cristiana, non c’è traccia di ciò nei Vangeli. La religione di
Daniel è amore, è tolleranza, è comportarsi rettamente: “non conta
assolutamente in cosa credi, ma conta solo come ti comporti”. E non esiste una
sola maniera di seguire Dio, ognuno è libero di trovare Dio cercandolo lungo la
via che gli si apre davanti.
Tutti gli altri personaggi del libro
ruotano intorno a lui, tutti, in qualche maniera, nel passato o nel presente,
sono venuti in contatto con lui, nello ‘Yiddishland’ ormai scomparso per sempre
o in Israele. Ewa, la bambina nata nella foresta e infilata in una manica di
pelliccia perché stesse al caldo; Rita, la madre che aveva lasciato Ewa e il
fratello in un orfanotrofio per continuare a combattere i nazisti; Hilda, la
giovane assistente tedesca di Daniel che sconta le colpe del nonno nazista con
il suo volontariato; Grazyna, che si uccide dopo la morte del marito ebreo che
lei aveva tenuto nascosto a rischio della vita, durante la guerra; l’ebreo
russo ex dissidente che diventa un terrorista; la donna polacca il cui marito
era un criminale di guerra; l’arabo cristiano israeliano di cui si innamora
Hilda, il dottor Isaac che aveva garantito per Daniel davanti ai partigiani
russi, e tanti altri ancora.
Non esito a dire che soltanto un grande
scrittore o una grande scrittrice poteva riuscire nell’impresa di coordinare un
materiale così vasto, di dare vita e parola a una tale varietà di personaggi,
di rendere interessanti anche le discussioni teologiche, di far risplendere il
carisma di un uomo come Daniel Stein, uno dei ‘giusti’ sulla terra. Con questo
romanzo Ludmila Ulitskaya, autrice di romanzi che hanno vinto numerosi premi in
Russia e all’estero, conferma di essere l’erede della tradizione letteraria
russa: un libro assolutamente da leggere. Da rileggere. Da far leggere agli
amici. Da non dimenticare.
la recensione e l'intervista che segue sono state pubblicate su www.wuz.it
Nessun commento:
Posta un commento