Diaspora ebraica
FRESCO DI LETTURA
Gina Nahai, “La strega nera di Teheran”
Ed. e/o, trad. De Caro, pagg.
529, Euro 16,58
Los
Angeles, aprile 2013. Il Figlio di
Raphael viene trovato morto, dentro la sua automobile, davanti ai cancelli
della grandiosa villa. E’ stato sgozzato. Quando arriva la polizia, però, non
c’è nessun cadavere. Scomparso. Una
finta morte per sottrarsi ai creditori? Oppure? La moglie non sembra essere
troppo sconvolta da quanto è successo.
Incomincia così, come se fosse un thriller,
il romanzo “La strega nera di Teheran” della scrittrice ebrea iraniana che vive
in America dal 1977. E c’è, sì, un
filone thriller, con un investigatore a cui è stata affidata l’indagine
perché è pure lui, come l’uomo assassinato, un ebreo iraniano, capace di
comprendere meglio, dunque, una cultura e un ambiente così diversi da quelli
americani. Così come c’è un filone di
realismo magico che deve essere accettato così com’è, quasi che parti della
vicenda fossero storie raccontate da una moderna Sheherazade- e sono tante le
storie che si accavallano l’una sull’altra, e tanti i personaggi, anche se al
centro c’è la famiglia Soleyman, da
cui ha inizio tutto.
A Teheran,
ai tempi dello Shah, i Soleyman erano una delle famiglie più ricche del paese.
Il primogenito Raphael aveva una singolarità- emanava una luce dall’interno,
era come incandescente. Come aveva
fatto a legarsi alla donna che verrà sempre chiamata ‘la strega di Bushir’ o ‘la strega nera’? Ignorante e rozza, più
vecchia di lui, brutta. Però lei lo aveva curato fino alla morte e dopo, quando
la famiglia pensava di potersene sbarazzare, aveva annunciato di essere
incinta: avrebbe dato un erede ai Soleyman.
Ma se non aveva più l’età per concepire un figlio! Dove era andata a prendere
quel bambino nato dopo tredici mesi di gravidanza che non avrà altro nome,
neppure all’anagrafe, che Figlio di Raphael? Per difendere i diritti di questo
figlio bastardo la strega di Bushir impiegherà tutti i suoi malefici, scatenando misteriose forze
della natura per vendicarsi, prima contro coloro che erano andati ad abitare in
quella che era stata la sua casa, poi contro Aaron, il fratello di Raphael, e
infine contro la moglie e le figlie di Aaron.
Ma intanto è cambiato tutto in
Iran, e la strega non se n’è accorta. Lo Shah è dovuto fuggire, è tornato l’Ayatollah Khomeini, i fondamentalisti barbuti imperversano,
quelli che restano dei Soleyman (soltanto la moglie e una figlia di Aaron)
riescono a comprare la via della fuga attraverso la Turchia. Pure il Figlio di
Raphael, dopo aver tentato di salvarsi con la conversione all’islam, arriva a
Los Angeles. E’ veramente un ‘figlio di puttana’ che merita la fine che fa,
questo Figlio di Raphael. Possiamo concedergli l’attenuante delle sofferenze
dovute al ridicolo di cui è sempre stato vittima e alla condizione di figlio
non riconosciuto, ma di certo è un genio
della truffa. Ed erano tanti quelli a cui aveva fatto del male e che lo
odiavano.
Nel confronto costante tra i due mondi,
America ed Iran, è l’America a perdere.
L’America, con tutte le sue straordinarie potenzialità, con il suo liberalismo,
con il sistema economico basato sul credito, offre eccezionali possibilità a
chi ha l’arte di raggirare le persone a suo vantaggio.
L’aberoo, quella qualità su cui si insiste tanto, la rispettabilità su cui si basa la dignità
dell’uomo in Iran, non esiste in America. Tutta la narrativa centrale del
romanzo, con le difficoltà- o forse il rifiuto- degli ebrei iraniani non di
integrarsi ma di assimilarsi con gli abitanti del posto, è molto bella. Così
come è bello il personaggio di John Vain,
l’esatto opposto del Figlio di Raphael, l’uomo che aiuta tutti gli iraniani
immigrati, prestando e spendendo anche i soldi che non ha. E non esiste
giustizia se John Vain finisce in prigione mentre il Figlio di Raphael si
compra sempre la libertà. Di proseguire a truffare.
Los Angeles- Rodeo Drive |
E’ un romanzo che conquista il lettore a
poco a poco, “La strega nera di Teheran”. Può infastidire quando la narrativa
mette alla prova la nostra credulità ma, nello stesso tempo, incuriosisce e affascina con il contrasto
fra due culture e, nei tempi di continui flussi di migranti in cui viviamo,
apre uno squarcio su una migrazione
elitaria che tuttavia è (non lasciamoci fuorviare) altrettanto dolorosa,
forse solo un poco meno problematica, di quella dei poveracci che sbarcano
sulle nostre coste.
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