premio Nobel
il libro ritrovato
Ivo Andrić, “Litigando con il mondo”
Ed. Zandonai, trad. Alice Parmeggiani, pagg. 148, Euro 15,00
Se potessi
morire, pensava allora il ragazzo nel letto, le mascelle serrate, tutto
contratto, se potessi morire all’istante! Morire significherebbe non dovermi
confidare con nessuno, non aspettare miracoli che non arriveranno, non
rispondere di colpe non commesse, non dovermi mai più presentare davanti a
quell’uomo fulvo e beffardo. Significherebbe che io scomparirei, ma con me
anche i libri, interi, danneggiati e riparati, e le biblioteche, i
bibliotecari, le responsabilità e il terrore che incutono. Dio, fa’ sì che io
muoia prima della fine del semestre, prima di quel momento inevitabile in cui
dovrò presentarmi davanti al bibliotecario e rispondere del libro danneggiato!
Se “il passato è una terra straniera”-
come scrive Lesley Hartley nel suo romanzo “Messaggero d’amore”- tanto più lo è
l’infanzia: leggendo degli anni della più remota giovinezza proviamo sempre una
certa qual sorpresa, come se i sentimenti che le appartengono ci fossero
sconosciuti, mentre, piuttosto, li abbiamo dimenticati. E, per introdurre “Litigando
con il mondo”, la raccolta di racconti di Ivo Andrić (premio Nobel 1961), citiamo le parole di Leopardi che
precedono uno dei più belli di questi racconti, “Il libro”: “Perché fatta così
infelice la fanciullezza?”.
La risposta alla domanda di Leopardi è fatta da tante mini-risposte
offerte dalle sette storie brevi di Andrić in cui non c’è un solo protagonista, anche se almeno un
nome, Lazar, ritorna più di una volta. La fanciullezza è infelice- non sempre,
si badi bene- proprio perché trabocca di domande a cui gli adulti non giudicano
opportuno dare una risposta. Così, nel primissimo racconto, il bambino si
chiede che cosa mai voglia dire la parola ‘sospetto’ riferito ad una persona di
cui si parla abbassando le voci. Che cosa occorre fare per diventare un
individuo ‘sospetto’? Oppure, in “Sulla riva”, il bambino infreddolito che
raccoglie il coraggio per tuffarsi, si domanda, “che cosa siamo noi, in realtà,
noi della sponda sabbiosa?”. Perché le due sponde del fiume dove vanno a
nuotare i bambini- una assolata e una ombrosa- sembrano riflettere anche due
diverse condizioni di vita di chi le abita. E sulla sponda sabbiosa prevale la
miseria e solo l’apparenza del bello. Il bambino vorrebbe essere diverso,
“avere qualcosa della bellezza del mondo”. Anche quando aveva pensato che un
pezzo di bellezza sarebbe toccato pure a lui, quando- in una sorta di scherzo
organizzato- aveva dato un bacio alla bambina bionda che tutti ammiravano, poi
era rimasto deluso: tutto qui? Possibile che un bacio fosse così differente da
come appariva nelle canzonette?
Sono due le bambine che appaiono fuggevolmente nei racconti, sono
entrambe un’anticipazione di una futura attrazione. Racchiudono un mistero,
sono un altro tormento dell’infanzia pur essendo, almeno, alla portata di un
bambino. Non come la zia Mila che ritorna in due storie: è la zia preferita del
giovane protagonista, abbastanza giovane da essere quasi una compagna,
abbastanza adulta da far intravvedere una promessa di sessualità futura. Eppure
anche una storia come “Mila e Prelac”, che contiene una luminosità d’amore, è
oscurata da eventi di cui non si afferra il significato e dal buio della morte:
muore un anziano ridotto a chiedere l’elemosina, muore lo straniero che i
bambini disprezzavano perché faceva l’accalappiacani, muore la zia che aveva
pianto quando era morto lo straniero Prelac. La morte è incomprensibile ma non
fa paura. E’ altro a far paura ad un bambino. E’ il buio della torre- una
vecchia polveriera turca- in cui va a giocare con gli amici, è il timore di una
sgridata nel bellissimo racconto “Il libro”, teso fra il desiderio a lungo
coltivato di prendere in prestito un libro da leggere e la paura del rimprovero
perché il dorso del volume si è spaccato in una caduta accidentale. Fino al
respiro di sollievo che restituisce al ragazzo la leggerezza: il professore non
si è accorto di nulla. E poi c’è la paura di guerre lontane di cui riecheggia
ancora la torre o di fatti di sangue di cui si favoleggia nel castello di
Dobrun.
Una storia, infine, “Il panorama”, ci parla di sogni di evasione, di
desideri di conoscere il mondo, di uscire dai confini del paese. Il
protagonista attende con ansia la domenica per andare a vedere il Panorama-
l’aggeggio che fa passare davanti all’occhio dello spettatore ben quindici
immagini di un paese lontano o di una città. L’amico Lazar disprezza questo
passatempo di fuga dalla realtà, il nostro ragazzo invece costruirà storie per
gli anni a venire su quelle fotografie. E’ l’elemento del sogno che si aggiunge
a tutte le altre storie raccontate.
Uno stile sobrio e impeccabile, una sensibilità fine capace di farci
appropriare di ricordi che non ci appartengono.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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