Diaspora ebraica
Casa Nostra. Qui Italia
FRESCO DI LETTURA
Raphael Luzon, “Tramonto libico”
Ed. Giuntina, pagg. 135, Euro
12,00
“Tramonto libico. Storia di un
ebreo arabo” incomincia e finisce nel luglio 2012, con Raphael Luzon, il
narratore e autore del libro, chiuso in una
cella del campo militare di Bengasi, incerto sulla sua sorte, sopraffatto
dall’onda dei ricordi di un altro tempo,
di un’altra paura.
Nel giugno del 1967, mentre in Israele si combatteva
la guerra dei sei giorni, gli ebrei libici sperimentavano la versione araba del
pogrom. Si respirava aria di pericolo, a Bengasi, dove vivevano i Luzon. Dal
nulla, all’improvviso, spuntavano minacce. Raphael aveva solo tredici anni
quando, dal barbiere per farsi dare una sforbiciata ai capelli, gli avevano
sussurrato all’orecchio, “Attento, ragazzino, che prestano vi sgozzano tutti quanti voi ebrei.” A scuola le lezioni
erano state sospese. Perfino la loro fedele domestica, Zaineb, se n’era andata
con le lacrime agli occhi. C’erano stati disordini,
incendi, la sistemazione provvisoria in baracche fuori città. La partenza, infine: una valigia e
venti sterline libiche era tutto quello che ognuno aveva il permesso di
portare. Sembra un dejà vu di quello
era successo agli ebrei tedeschi con l’avvento di Hitler.
C’è un tono epico nelle parole di
Luzon, c’è l’epopea dell’ebreo errante, “e
così partimmo, senza niente, lasciando dietro di noi i morti, ignorando la
sorte dei nostri parenti, abbandonando le nostre case agli arabi, con i cuori
affranti e le nostre tradizioni, i nostri affetti, i nostri ricordi nel fragile
bagaglio della nostra memoria.” E’ importante che la memoria continui a salvaguardare i ricordi del passato, la
storia di famiglia. E Raphael Luzon ci parla dei nonni, del padre importatore
di prodotti farmaceutici, della madre coraggiosa, dell’eccidio della famiglia
dello zio, prima di continuare con le vicende di tutti loro dopo l’arrivo in
Italia insieme agli altri 4100 ebrei libici che scelsero questa destinazione,
il campo profughi a Capua dapprima e poi Roma, per acquistare stabilità, per
rimettere radici in un’altra terra.
Bengasi |
C’è una cosa che mi stupisce sempre e che
mi riempie di ammirazione, ogni volta che leggo una storia come quella di
Raphael Luzon, ed è la capacità che
sembrano abbiano sempre gli ebrei, che fa parte dei loro geni ormai per una
forzatura storica, di rialzarsi
dalle cadute, di ricominciare da capo, di andare avanti e di farsi strada nel
nuovo mondo dove sono stati trapiantati. Non è per loro come per gli altri
migranti, o immigrati, o esuli, che per lo più si lasciano alle spalle una
situazione disperata in cui non hanno nulla da perdere. Molto spesso, quasi
sempre, gli ebrei di cui leggiamo abbandonano una situazione economica
fiorente, perdono tutto per riiniziare dal nulla. Senza lasciarsi abbattere. Un’altra cosa ho ammirato, nel libro di
Raphale Luzon. Il tono pacato con
cui racconta, l’assenza di ribellione davanti ai colpi della fortuna- perché la
sua non è stata una vita facile, neppure quando sembrava che il peggio fosse
passato. Sua moglie morì due anni dopo aver messo al mondo la loro bambina,
Raphael emigrò in Israele per esaudire il desiderio della moglie- che la figlia
crescesse laggiù-, ci fu poi la sua malattia e un’operazione. Ci fu anche,
però, il ritorno in Libia su invito di Gheddafi- felicità e dolore. Felicità per rivedere un luogo amato e dolore
nel vedersi precluso l’ingresso in quella che era stata la loro casa e la
sinagoga trasformata in una chiesa copta.
Eppure, nonostante la brutta
esperienza di quell’imprigionamento nel 2012, Raphael Luzon non riesce a soffocare
l’amore per la Libia, la sua naturale disposizione d’animo lo induce a pensare
che “le forze buone insite in tante
persone potranno alla fine prevalere se soltanto non perderemo la speranza, se
soltanto faremo in modo di non lasciare spazio nelle nostre anime alle ombre
buie della disperazione e dell’odio”. Raphael Luzon teme per la Libia, ha paura
della potenza dei movimenti islamici e l’ultimo suo grido generoso è, “Non lasciamo solo il popolo libico”.
Sinagoga di Tripoli |
Con la prefazione di Roberto Saviano, un
piccolo libro che vale la pena di leggere.
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