Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Abraham B. Yehoshua, “Il responsabile delle risorse umane”
Ed. Einaudi, trad. Alessandra
Shomroni, pagg. 258, Euro 17,00
Non ci colpisce più con l’orrore
di una volta, la notizia che qualcuno è rimasto ucciso, vittima di un
attentato, di una pallottola vagante, di una mina, di una sparatoria. Siamo
diventati insensibili alla morte che fa la sua comparsa ogni giorno nelle
nostre vite, sempre più cieca e casuale. La accettiamo come destino o fatalità.
Il nuovo romanzo di Abraham Yehoshua, “Il responsabile delle risorse umane”,
vuole aprire una breccia in questa indifferenza e, non a caso, un solo personaggio ha un nome: Julia
Regajev, la donna che è presente in tutto il romanzo, pur essendo già morta
all’inizio, vittima di un attentato
kamikaze nel mercato nel cuore di Gerusalemme. E Yehoshua le dà un nome
proprio perché deve essere
identificata, è l’unica a non avere un nome, perché il suo corpo resta
all’obitorio senza che nessuno lo
reclami, nessuno si è accorto della sua scomparsa. Un giornalista- sempre chiamato
“il serpente” nel romanzo- minaccia di far scoppiare uno scandalo, accusando di
insensibilità la fabbrica in cui la donna lavorava come operaia e di cui le è
stato trovato in tasca il cedolino dello stipendio.
E’ per rimediare al senso
di colpa, per riscattarsi davanti al pubblico di lettori, che l’anziano padrone
della fabbrica affida al responsabile
delle risorse umane il compito di
appurare l’identità della donna, e poi quello di scortarne la bara nel paese da cui proviene- perché Julia è un’immigrata
cristiana, attirata a Gerusalemme dal fascino mitico e mistico della città.
Lui, il responsabile delle risorse umane, è un uomo solo, ha divorziato da
poco, è un alienato dal cuore duro,
che reagisce con insofferenza a questo incarico- intanto nessuno legge quel
giornalaccio e nessuno farà caso all’accusa; no, non si ricorda affatto della
donna (davvero era bella?), come potrebbe ricordarsi di tutte le persone a cui
fa il colloquio? E poi, a poco a poco, il suo atteggiamento cambia,
naturalmente durante il viaggio verso il paese della donna. Ritorna sempre, nei
romanzi di Yehoshua, il tema del viaggio
come scoperta di sé, ma questo è senz’altro il viaggio più lungo che compia
un protagonista dei suoi libri, ed è anche un
viaggio di espiazione e di rinascita- un morto nello spirito che rinasce a
opera di un morto. All’arrivo all’aeroporto del paese senza nome
(presumibilmente uno dei paesi dell’ex Unione Sovietica), il responsabile delle
risorse umane incontra il figlio della donna e riconosce in lui i lineamenti di
lei, quegli occhi “tartari” che ne accentuavano la bellezza (un cenno di
esotismo che Yehoshua ci dice di aver preso da Madame Chauchat, ne “La montagna
incantata” di Thomas Mann, perché gli pareva fortemente erotico), e si innamora
della donna morta. Il viaggio prosegue, più lontano, in una terra gelida che
contrasta con il calore che sta sciogliendo il cuore dell’uomo, lui sta
malissimo per una forma di avvelenamento da cibo, e, mentre il suo corpo
espelle fetido materiale fecale, avviene l’ultima depurazione del suo animo. La fine è aperta, forse la bara verrà riportata a Gerusalemme, a questa città che appartiene a tutti e a nessuno, perché, come ancora ci dice lo scrittore, per la pace di una città tormentata e ferita è necessaria una terza parte, cristiana come lo è Julia Regajev. Un libro triste in tempi tristi- Yehoshua è sempre un grandissimo scrittore che risveglia le coscienze, senza fuggire dalla realtà.
la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos
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