Voci da mondi diversi. Cina
il libro ritrovato
Yan Lianke, “Il sogno del villaggio dei Ding”
Ed. Nottetempo, trad. Lucia
Regola, pagg. 445, Euro 20,00
Titolo originale: Ding Shuang Meng
A quel tempo c’era un sacco di gente che
vendeva il sangue e un sacco di gente che lo comprava. Molti andavano a
comprarlo direttamente nelle case della gente, portandosi dietro l’attrezzatura
necessaria. Ti passavano davanti alla porta di casa in cerca di sangue proprio
come passano i rigattieri in cerca di metalli vecchi e scarpe rotte. Non dovevi
neanche muoverti di casa, te ne stavi tranquillo ad aspettare il grido: “Compro
sangue!...Chi vuole vendere?”
Chiedo
ad ogni lettore di perdonare il dolore che questo libro gli procurerà-
scrive Yan Lianke nella postfazione del suo libro, “Il sogno del villaggio dei
Ding”. Perché “Il sogno del villaggio dei Ding” è un libro che fa male, che causa al lettore la sofferenza dello
spettatore impotente davanti al Male che l’uomo infligge ai suoi simili. Yan
Lianke è nato in Cina nella provincia di Henan: nel 2001, solo nella provincia
di Henan, si registrarono un milione di
casi di Aids. Un’epidemia. Non dovuta, come in Africa, a rapporti sessuali
non protetti ma ad una dissennata campagna per la vendita di sangue per rifornire di plasma gli ospedali. Mancanza
assoluta di qualunque genere di profilassi, aghi usati e ri-usati, lo stesso
batuffolo di cotone impiegato per chissà quante persone…La gente incominciò ad
ammalarsi, ma i poveri sono abituati ad accettare le malattie come una
fatalità. Finché ci fu una prima diagnosi.
Yan Lianke ci racconta questa storia
attraverso la voce fuori campo della
vittima più innocente e, paradossalmente, in un certo senso più estranea a
questa tragedia: un ragazzino morto, non di Aids ma avvelenato da qualcuno che
intendeva vendicarsi di suo padre Ding
Hui che si era arricchito con la vendita del sangue. All’inizio c’era stato
un arricchimento generale nel villaggio dei Ding. Ora non c’è casa da cui non
sventoli uno stendardo bianco in segno di lutto. Il villaggio è avvolto nel
silenzio. Nell’anno passato c’era stato un
morto ogni dieci giorni. Di questo passo sarebbero morti tutti nel
villaggio. Come le foglie di un vecchio albero,
sarebbero prima appassiti, poi ingialliti e infine caduti a terra con un
fruscio, spinti chissà dove da una raffica di vento.
La narrativa di Yan Lianke ha il
tono dell’elegia funebre, alterna il
realismo delle scene di vita quotidiana con frasi che sembrano versi di una
ballata accorata, una di quelle cantate da un cantastorie itinerante, con
ripetizioni di parole che ti entrano nella mente e nel cuore prima di una pausa
ad effetto, per lasciarti assimilare quanto è stato detto. Tutto il villaggio rivive nelle pagine di Yan Lianke- gli ammalati
che si trasferiscono a vivere dentro l’edificio scolastico per limitare il
contagio e i sani che battibeccano con i malati, rimproverandoli per
l’imprudenza, tenendosene alla larga. La generosità e l’altruismo sono
scomparsi insieme alla salute. C’è un’eccezione luminosa ed è il personaggio
del nonno del ragazzino che racconta
dall’aldilà, che viene chiamato Maestro anche se non lo è in realtà. E’ solo il
custode responsabile della scuola. E continua a svolgere questo incarico ora
che le aule sono piene di ammalati invece che di bambini: è per compensare il
villaggio per quanto ha fatto suo figlio Ding Hui? Per scontare una colpa non sua? Di certo Ding Hui non ha rimorsi.
Anzi, allarga il mercato. Si appropria delle bare che il governo concede alle
famiglie per seppellire i morti e le rivende. Sono scene grottesche, quelle della visione della fabbrica di bare e del
commercio di queste, delle trattative sul prezzo e la qualità. Saranno ancora
più grottesche quelle dell’altra idea brillante di Ding Hui: fare il sensale di matrimoni tra i defunti.
Per avidità, Ding Hui farà sposare anche suo figlio, il ragazzino che è morto
troppo giovane per conoscere l’amore.
C’è, però, anche una vera storia d’amore tra i malati. Bella, straziante. Ricorda le
storie d’amore nei ghetti o nei campi di concentramento. Con un finale che
potrebbe essere quello di una tragedia scespiriana. E mentre il furto delle bare
e la dissacrazione della tomba degli amanti potrebbe trovare il suo posto in
una tragicommedia, la figura del vecchio Ding che cerca di riequilibrare la
giustizia, senza però essere compreso, è altamente drammatica. Anche perché una
città non distante si è arricchita in maniera straordinaria e, invece, la terra
vicino al villaggio dei Ding, colpita dalla siccità, sembra essere morta
insieme ai suoi abitanti: no, non c’è
giustizia a questo mondo.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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