Voci da mondi diversi. Cina
INTERVISTA A Ma Jian, autore di
“Pechino è in coma”
Ho bisogno dell’interprete, per
intervistare lo scrittore cinese Ma Jian, e questo aggiunge un tocco di
esotismo all’intervista- il sentirsi del tutto esclusi: è vero, sono le mie
domande che vengono poste e a cui lui risponde, ma, se da un lato è stuzzicante
ascoltare dei suoni di cui posso solo apprezzare la musicalità, dall’altro è
lievemente inquietante il non capire assolutamente nulla e pensare che pure lo
scrittore non capisce quanto l’interprete (bravissima) mi traduce delle sue
risposte. E c’è una cosa che mi dispiace: che il tempo concessomi per parlare
con lui abbia un limite, perché avrei altre cose da chiedergli, da
approfondire.
Il suo primo romanzo- che non è propriamente un romanzo- è “Polvere
rossa”: è una sorta di preparazione per i libri che scriverà dopo?
In realtà “Polvere rossa” è stato il mio
primo romanzo pubblicato in Italia, ma è il quarto libro che ho scritto. Il mio
agente aveva visto le foto del mio viaggio in Cina e gli interessava che scrivessi
un resoconto delle mie avventure- pensava che sarebbe stato di interesse per
gli occidentali. Quando ho scritto “Polvere rossa” erano già trascorsi quindici
anni da quando avevo fatto il viaggio e mai mi sarei aspettato di doverne
scrivere. Poi mi è venuta voglia di rivedere me stesso come ero negli anni ‘80,
di rispecchiarmi e vedere che uomo ero stato. In “Polvere rossa” è compresa
pure l’epoca di cui racconto in “Tira fuori la lingua”.
Il libro che ha causato uno scandalo in Cina è proprio “Tira fuori la
lingua”, che parla del suo viaggio in Tibet: quale era la sua intenzione nello
scrivere il libro? Leggendolo, io l’ho trovato un libro molto triste, con il
contrasto tra la natura di una bellezza mozzafiato che invita alla spiritualità
e l’estrema povertà della gente.
Quello che mi ha spinto ad andare in
Tibet è che io sono buddista e cercavo in Tibet una spiritualità che non ho
trovato. Quando sono andato, volevo pregare, volevo onorare il Budda con le mie
preghiere. Invece non ho avuto la sensazione che il Budda fosse vero, mi è
parso che fosse tutto una finzione.
Faccio un esempio: c’era una statua di Budda che aveva una cavità per l’acqua
santa. Mi pareva bellissima per una foto, ma è arrivato un monaco, dicendo che
era proibito fotografare. Mi sono fermato immediatamente, avevo fatto un
errore, quello era un luogo di culto, ovvio che non si potevano fare foto.
Però, subito dopo, il monaco ha aggiunto che dandogli dei soldi avrei potuto
fotografare…La cosa che mi preme dire viene già detta nel titolo. Tirar fuori
la lingua è il saluto che i tibetani fanno al prossimo per gentilezza. Tuttavia
nella cultura cinese tradizionale, il medico ti fa tirare fuori la lingua per
analizzare i tuoi sintomi. Volevo mettere insieme i due punti diversi delle due
culture, con le domande- ‘sono ammalato io?’ e, ‘ci sono malattie che posso
scoprire?’. Il cuore del mio messaggio era che l’uomo ha grande valore, che le
religioni hanno un grande valore, ma non possiamo svenderci per una fede.
L’uomo ha un valore che non può essere sottomesso a nessun credo. Il titolo
completo originale era “Tira fuori la lingua, oppure il nulla”, e intendo,
‘oppure è l’aridità, il vuoto’.
Sia in “Polvere rossa” sia in “Tira fuori la lingua” Lei viaggia con la
macchina fotografica: la macchina fotografica è il suo terzo occhio?
La cosa fondamentale,
quando concepisco un romanzo, è pensare prima alle immagini e non alla lingua. Quello
che mi colpisce è la forma più che il linguaggio. Quanto alla macchina
fotografica come il terzo occhio- questa è una domanda brillante, è una bella
intuizione, perché certamente abbiamo bisogno dell’occhio dell’anima per
guardare il mondo. La macchina fotografica cattura la realtà, ma poi quello che
cattura attraverso il nostro spirito è qualcosa che va oltre la realtà. Quando
scattiamo una foto, non ritraiamo la realtà ma noi stessi.
Sia in “Spaghetti cinesi” sia in “Pechino è in coma”, il suo stile si
avvicina al paradosso e al grottesco. Ho letto di recente il romanzo “Arricchirsi
è glorioso” di Yu Hua e ho osservato che anche Yu Hua usa l’esagerazione e il
paradosso nella sua narrativa. In un certo senso sembra che sia uno stile
adatto ad un paese così vasto come è la
Cina : pensa che l’uso del paradosso sia una necessità perché
gli scrittori cinesi riescano ad esprimere pienamente la realtà?
La questione è che la realtà cinese è più
grottesca ancora della nostra narrativa. La realtà quotidiana cinese è follia
pura, e lo è ancora di più dal 4 di giugno del 1989. Il partito comunista
cinese ha cercato di controllare il suo popolo e il metodo che ha usato è stato
talmente invasivo che il popolo non conosce più né la realtà in cui vive né
quella da cui viene. Il risultato è che, da vent’anni a questa parte, la
società cinese è sempre più vicina al grottesco. Si può vedere da cose
pratiche, i cinesi fanno cose inimmaginabili, pensiamo allo scandalo della
melanina nel latte lo scorso anno. Più si va avanti e più la verità non esiste.
Secondo me le Olimpiadi dello scorso anno sono state il picco dell’assurdo. Ero
a Pechino, avevo voglia di comprare dei mobili tibetani: impossibile; durante
tutto il periodo delle Olimpiadi c’era l’ostracismo sulla merce tibetana.
Pechino fu trasformata nel palcoscenico su cui venne messo in scena il Partito
Comunista Cinese. Avevano chiuso gli alberghi al di sotto delle tre stelle-
voleva dire che chiunque non fosse ricco non poteva stare a Pechino. Si
vedevano in giro solo i più alti funzionari, i papaveri del Partito, a
passeggio con i figli per piazza Tienanmen. C’erano cartelli che gli stranieri
non erano in grado di decifrare e che ordinavano di non passeggiare per la
piazza dalle 6 alle 10 di sera- i cinesi potevano andare in piazza Tienanmen
solo dopo le 11 di sera: era il modo per tenere separati i cinesi dagli
stranieri, per tenere lontane le due realtà. Secondo me questa assurdità non
potrebbe accadere in Occidente- non c’era proprio nessun spirito olimpico. Non
era quello che si è visto in televisione.
Fra pochi giorni saranno vent’anni dagli eventi di piazza Tienanmen. Tienanmen
1989 ha
lo stesso significato simbolico per la
Cina come lo ha per il mondo occidentale la Caduta del Muro 1989?
Secondo me il 4 giugno 1989 è stato un
punto di svolta per la Cina :
un momento di vittoria ma anche una disfatta per il Partito Comunista cinese. Ed
è diventato anche il momento in cui il Partito Comunista cinese è diventato
capitalista. Ma anche il momento in cui il popolo cinese è risorto, in cui sono
fiorite le speranze: sembrava di essere in guerra, c’erano i carri armati, ma
il popolo era vivo, pronto. In quel momento, in quel mese, i cinesi avevano
facce con un’espressione. Prima e dopo invece i cinesi hanno tutti la stessa
faccia- proprio come appaiono a voi occidentali. C’è una connessione con Berlino:
il crollo del comunismo a Berlino è stato preceduto, forse è stato addirittura
chiamato dai tragici eventi di piazza Tienanmen. Che hanno smascherato la
faccia del Partito Comunista. Scommetto che, senza Tienanmen, il Muro non
sarebbe caduto così in fretta.
Perché scriverne dopo vent’anni?
In realtà sono dieci anni che lavoro a
questo libro. La spinta iniziale mi è venuta una settimana prima degli
avvenimenti del 1989 quando lasciai Pechino per recarmi a Qingdao, dove mio
fratello giaceva in coma, vittima di un incidente- è rimasto otto anni in coma.
Subito dopo Tienanmen tutti quelli che avevano preso parte al movimento avevano
paura di essere arrestati. L’unico al sicuro, nella sua tomba di carne, era mio
fratello. Fino al 4 giugno c’era stata speranza, gioia, vitalità. Dopo
iniziarono il terrore e il controllo crescente, verso tutto e verso tutti. La
situazione di mio fratello e della Cina mi ha spronato a scrivere questo
romanzo. Perché il nostro corpo è il nostro unico nemico, ma nella prigione del
corpo abbiamo pure l’occasione di vivere veramente. Utilizzando ed estendendo
questa metafora, la Cina
è un grande corpo che ci imprigiona. Ogni corpo può essere vilipeso dal Partito
Comunista cinese- possiamo vedere come, in dieci, vent’anni, il Partito ha
fatto un lavaggio del cervello a tutti: nessuno ricorda niente, è come se i
cinesi fossero tutti morti, ma il vegetale del mio libro ritorna alla vita
grazie ai ricordi. La vera speranza è resistere al controllo; la vita ci viene
dalla memoria.
Il protagonista del libro è lo studente a cui hanno sparato alla testa
e che giace in coma. Mi ha fatto pensare al folle intellettuale nel romanzo
“Pazzia” di Ha Jin. La condizione di qualcuno gravemente ammalato è la migliore
per parlare della Cina?
Non ho letto Ha Jin ma posso dire che
raccontare la società malata è più semplice attraverso gli occhi di un malato o
di un pazzo, perché sono loro che rappresentano meglio la società malata. So
che da voi si dice che i comunisti mangiano i bambini. Questo fa arrabbiare i
comunisti ma le dico che è la verità. Ho la testimonianza che questo è
successo, in un ristorante dell’area di Canton…
Molti scrittori cinesi vivono all’estero, anche adesso che potrebbero
tornare in patria. Come gestisce la lontananza dal suo paese e riuscire
tuttavia a scriverne? Oppure ci riesce bene perché, vivendo all’estero, si
sente più libero di esprimersi?
Sì, se non avessi lasciato la Cina , non avrei avuto modo di
scrivere, perché quello che interessa al Partito è lo sviluppo economico, però
l’interesse più grande, da cinquant’anni a questa parte, è controllare il
pensiero. Quello che il Partito ha fatto è stato rendere le persone tutte
uguali e quindi per uno scrittore, per mantenere l’integrità e la libertà,
l’unica maniera è lasciare la Cina. Se
te ne vai, la vedi con maggiore lucidità, perché, se stai su una montagna, non
vedi la montagna. E’ naturale, non nascondo che mi piacerebbe che i miei libri
fossero pubblicati in Cina, perché è ovvio che nello scrivere i miei romanzi la
mia intenzione è che siano un veicolo per esprimere me stesso. In questo libro
volevo comunicare l’idea che un uomo deve usare lo sguardo per avere una
visione delle cose, il fatto che, quando siamo vivi, ci prendiamo cura di noi
stessi grazie alla memoria. La società cinese manca di individualismo e,
secondo me, è in una fase in cui i valori etici hanno raggiunto il picco più
basso possibile e l’interesse dell’uomo per se stesso è assente del tutto. Lo
stato dell’umanità è molto arretrato rispetto all’Occidente.
Intende dire, quindi che gli scrittori che vivono in Cina- come Mo Yan
e Yu Hua, ad esempio- si adeguano in qualche maniera alla censura più o meno
esplicita?
Inizialmente Mo Yan e Yu Hua hanno scritto
qualcosa di nuovo, avevano un loro pensiero personale. Inevitabilmente si sono
adeguati al sistema: i loro romanzi sono storie dietro cui non c’è uno sguardo
personale sul mondo. E poi sfugge un particolare: molti degli scrittori che
vivono in Cina sono membri del Partito. All’epoca della caduta del Muro una
scrittrice della Germania dell’Est, Christa Wolf, ha raccontato quello che dico
io. La cosa è valida anche per Mo Yan: se sei in un sistema, non puoi
contrastarlo perché è ciò di cui ti nutri, è il tuo contenitore, ti protegge e tu
proteggi lui. Ci sono scrittori come Yu Hua che dicono che non c’è alcun
contrasto tra la Cina
e lo scrivere, anzi, che c’è un grado ottimale di libertà. In realtà penso che
siano terrorizzati fino al midollo e non se ne rendano conto.
Mi ha detto della sua necessità di vivere all’estero per sentirsi più
libero di scrivere. Come riuscirà a non farsi contaminare dall’ambiente, che
possibilità c’è che abbandoni la sua lingua e scriva in inglese, circondato
com’è da un mondo che parla inglese?
Assolutamente nessuna possibilità. Perché
i miei personaggi vivono nei miei romanzi e i miei romanzi sono ambientati in
Cina. Ci sono due tipi di scrittori: c’è Kundera che va a vivere in Francia e
adotta il francese per scrivere e si francesizza. E c’è lo scrittore come me
che si barrica nella sua lingua. Se ti liberi della lingua cinese, è
impossibile percepire lo sviluppo della società cinese. La lingua ti garantisce
di continuare a percepire il ritmo della vita della Cina. Più siamo vicini alla
cultura occidentale e più ci allontaniamo dalla cultura di origine, e in
qualche modo però questo allontanamento ci rende più lucidi: io cerco questa
lucidità.
l'intervista è stata pubblicata su www.wuz.it
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