martedì 3 giugno 2014

Ma Jian, "Pechino è in coma" ed. 2009

                                                        Voci da mondi diversi. Cina
                                                         il libro ritrovato


Ma Jian, “Pechino è in coma”
Ed. Feltrinelli, trad. dall’inglese di Katia Bagnoli, pagg. 633, Euro 19,50

Titolo originale: Beijing Coma

   Il giorno precedente avevo visto un pechinese marciare fino in Piazza reggendo una grande fotografia di Mao. Disse che era venuto a sostenere gli studenti. Gli chiesi se sapeva dell’ Incidente di Tienanmen del 1976. quando Mao aveva approvato l’uso della forza per sedare una protesta portata in Piazza da decine di migliaia di pechinesi contro la Banda dei Quattro, ma non ne aveva mai sentito parlare. Non era una colpa: per quarant’anni il Partito comunista aveva lavorato con impegno per cancellare la storia.


    IL 4 GIUGNO E’ IL GIORNO PIU NERO DELLA STORIA CINESE- avevano scritto gli studenti in caratteri giganteschi sulla pietra del Monumento in piazza Tienanmen. Il 4 giugno 1989, su ordine di Deng Xiaoping, i carri armati entrarono nella piazza facendo fuoco sugli studenti lì ammassati per protesta da tre settimane. Tutto era iniziato come una manifestazione di lutto per la morte del riformista Hu Yaobang e il movimento si era poi ampliato in una protesta contro la corruzione ed una richiesta per un regime più democratico. La repressione fu una strage- non si è mai saputa la verità sul numero dei morti. Da una stima ufficiale di 200 morti civili si balza a quella di 800 morti denunciate dalla CIA, di 2.600 della Croce Rossa, 3000 secondo un sito inglese di Pechino. A questi numeri vanno aggiunti quelli dei gravemente feriti, degli arrestati, torturati, imprigionati.

     “Pechino è in coma”, il libro dello scrittore dissidente cinese Ma Jian, che vive all’estero (dapprima a Hong Kong, poi in Germania e attualmente a Londra) dopo la messa al bando delle sue opere, ci riporta a quel giorno di vent’anni fa. Più precisamente, ci riporta a ‘quei’ giorni, al mese di preparazione che sarebbe culminato nel massacro. E noi sappiamo che tutta la narrazione convergerà lì, in quel giorno in cui il protagonista Dai Wei fu colpito da un proiettile in testa. Non è morto, Dai Wei, ma è un morto che vive nella sua ‘tomba di carne’- alla fine del libro, quando è già il 1999 e Pechino si prepara ad ospitare le Olimpiadi, sono dieci anni che Dai Wei è in coma. Assistito dalla madre, che non ne può più, che non ha soldi sufficienti per pagare le soluzioni di glucosio sostitutive dell’alimentazione per il figlio, che ricorre alla medicina alternativa per sperare oltre la speranza (e finisce anche in carcere per questo), che arriva a vendere un rene di Dai Wei per procurarsi un poco di denaro e che sprofonda in una lenta demenza, sfidando il governo (lei che è sempre stata fedele al Partito) nel rifiuto di abbandonare la sua casa, che viene demolita nel programma di ricostruzione edilizia in vista delle Olimpiadi.
     Sono due le narrative di “Pechino è in coma”, entrambe filtrate dalla voce di Dai Wei, ma una impiega il tempo al passato e l’altra quello al presente. Nella prima, Dai Wei ricorda; nella seconda Dai Wei, prigioniero del suo corpo, ascolta. Continui a tornare a quel momento, in cerca del suono dimenticato dell’unico sparo. Ecco, Dai Wei sa, nel torpore comatoso, che l’attività mentale del ricordo può riportarlo alla vita. Sa che, quando riuscirà a ricostruire tutto il passato nella sua mente e arriverà infine al suono dimenticato dell’unico sparo che ha colpito lui, inizierà una nuova vita.
Dai Wei ricorda- il padre musicista che era tornato dai campi di rieducazione nel 1980, che cosa aveva significato per loro, sua madre, lui e suo fratello, avere un marito e un padre ‘destroide’, la sua unica esperienza del carcere per aver letto e copiato un romanzo proibito, l’università, il primo grande amore per A-Mei (che lui non ha mai dimenticato, aveva creduto di vederla anche un attimo prima che gli sparassero in testa), il sesso, l’incontro con Tian Yi (che non dimenticherà mai lui, continuando a telefonargli anche dall’America, anche alla vigilia del suo matrimonio, nel 1999), il fermento di ribellione che aveva portato all’occupazione di piazza Tienanmen. I dialoghi tra gli studenti sono quelli che occupano lo spazio maggiore nei ricordi di Dai Wei, e sono parole che si sarebbero potute ascoltare durante le occupazioni studentesche in Europa- non vanno mai nel profondo, non sono mai analisi teoriche; sono piuttosto manifestazioni di insoddisfazione e disagio, utopisticamente vagheggianti una realtà migliore. Non cercavamo di rovesciare il Partito o di attaccare Mao- ricorda un amico che è venuto a trovare Dai Wei. E naturalmente gli studenti parlano anche di donne e di sesso. E poi, quando occupano la piazza, della fame degli scioperanti, di chi si è sentito male, della visita di Gorbacev a metà maggio che non deve essere turbata. Si illudono che il Governo non ricorrerà alle maniere forti contro di loro, perché ci sono troppi giornalisti stranieri a Pechino. Restano sgomenti di fronte alla legge marziale, mettono ai voti se restare o andarsene. Poi arrivano i carri armati.

    A tratti ci smarriamo nei discorsi dei giovani, spesso abbiamo difficoltà a ricordare i loro nomi, eppure c’è un effetto di accumulo nei ricordi di Dai Wei, una memoria che è in stridente contrasto con l’amnesia collettiva della Cina che risalta nella seconda narrazione del tempo presente, in cui il luogo si è ristretto- dalla piazza enorme alla stanzetta con il letto di ferro in cui giace Dai Wei, il vociare degli studenti è sostituito dal silenzio di Dai Wei e dal racconto dei compagni che vengono in visita (che ne è stato dell’uno e dell’altro, chi è andato all’estero e chi è stato allontanato, chi è rimasto fedele e chi ha tradito gli ideali), il tempo si dilata- dalle tre settimane in piazza Tienanmen ai dieci anni di una Pechino che cambia (è morto Deng Xiaoping, l’uomo che mi ha privato della vita è morto. Ma anche l’odio che provavo per lui è morto tanto tempo fa. Arrivano persino i cellulari e i computer). Eppure, è Pechino che è in coma, un coma molto più profondo di quello di Dai Wei. “Tutti là fuori sono malati di testa. Chissà, forse tu sei l’unica persona sana di mente rimasta in città”, gli dice l’infermiera. Perché mentre Dai Wei si sforza di ricordare, là fuori c’è una sistematica distruzione della memoria: ogni anno, all’anniversario della strage, la polizia scorta Dai Wei e sua madre in vacanza da qualche parte. Perché non parlino, perché non rispondano a nessuna domanda. Quello su cui si tace non è mai successo.
     Il processo di cancellazione del passato raggiunge alla fine un duplice culmine: Dai Wei completa nella sua mente la ricostruzione di quanto è avvenuto e sua madre smarrisce la memoria; il rumore dei cingoli dei carri armati risuona forte come allora nella testa di Dai Wei e, in strada, i bulldozer che abbattono le vecchie case fanno un rumore infernale.

    “Pechino è in coma” è un libro che doveva essere scritto. “Pechino è in coma” è un libro che deve essere letto. Per non sprofondare tutti nel coma.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

Ma Jian

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