Voci da mondi diversi. Cina
INTERVISTA ALLO SCRITTORE CINESE MO YAN, Fiera del Libro di Torino, 2007
In occasione di un suo precedente soggiorno
italiano Mo Yan ha già spiegato il significato dello pseudonimo con cui ha
scelto di firmare i suoi romanzi. Mo Yan significa, “Colui che non vuole
parlare” ed è una sorta di risposta scherzosa alla nonna che lo zittiva sempre.
Perché lui invece era un bambino chiacchierino che non taceva mai. E se è
difficile vedere il bambino che è stato in quest’uomo di più di cinquant’anni
(Mo Yan è nato nello Shandong nel 1955), ci pare invece di poter sentire l’eco
di una voce che non tace mai dietro le storie narrate nei romanzi di questo
grande scrittore cinese. Storie che parlano di uomini che hanno avuto una vita
dura, di miseria e lavoro nei campi, che sono passati attraverso rivoluzioni e
guerre, hanno subito o perpetrato violenze tremende. Quello che colpisce in Mo
Yan è la capacità affabulatoria, l’andamento fluviale dei suoi romanzi: è come
se il suo narrare iniziasse alle sorgenti e poi acquistasse impeto, si
diramasse in corsi d’acqua secondari per seguire vicende marginali e poi il
fiume narrativo rientrasse nell’alveo ingrossato, arricchito, e straripasse
nuovamente, come un fiume in piena. Sono romanzi epici, quelli di Mo Yan. Nel
grande afflato narrativo le microstorie dei personaggi si srotolano insieme
alla grande Storia della Cina, tanto che viene da chiedersi chi sia il vero
protagonista: gli uomini o la
Cina ? E poi la domanda è inutile, perché sono la stessa cosa.
Sappiamo che cosa vuol dire lo pseudonimo che si è scelto, ma perché ha
scelto di scrivere con uno pseudonimo e non con il suo nome?
Ho scelto uno pseudonimo
perché molti scrittori famosi sono diventati tali proprio con uno pseudonimo.
Inoltre il nome che ho scelto, Mo Yan, “non voglio parlare”, rimanda anche al
periodo in cui sono cresciuto: durante la Rivoluzione Culturale
se si parlava troppo e si dicevano cose sbagliate, le conseguenze non erano
piacevoli per sé e per la propria famiglia. Una delle cose che papà e mamma mi
ripetevano spesso era proprio, ‘non parlare’, e quindi ho preso spunto da
quello che mi dicevano i miei genitori.
La sua era una famiglia di contadini, come mai ha scelto di entrare
nell’esercito? E come è arrivato alla letteratura, a diventare uno scrittore?
Una delle cose più evidenti in Cina è la
grande differenza tra la città e la campagna. In campagna la gente è meno
evoluta, i giovani hanno sempre voglia di andare in città. E poi, una volta,
entrando nell’esercito era più facile poter andare all’università. Anche perché
nell’esercito, se uno è volonteroso, ha più tempo per studiare. Oltre al fatto
che in campagna c’era poco da mangiare e faceva freddo: l’esercito offriva una soluzione
per queste cose. Con il tempo libero ho iniziato a scrivere, anche perché
l’esercito cinese ha pure una sezione artistica importante: ci sono cantanti e
ballerini, ma anche scrittori. Per me è stato naturale prendere questa strada.
Certamente c’erano limitazioni in quello che si scriveva, si era spinti a
parlare bene dell’esercito. Non avevo questa capacità, di scrivere quello che
non pensavo. Per questo più di dieci anni fa ho lasciato l’esercito, per
continuare la mia strada.
Quando le capita di tornare nel villaggio in cui è nato e cresciuto,
osserva un cambiamento nelle condizioni di vita dei contadini che si avvicini a
quello che è avvenuto nelle città?
Ogni anno torno nel mio
villaggio, tutti i miei parenti abitano là, mia madre è morta ma mio padre vive
laggiù. Di fatto le prime riforme sono avvenute nelle campagne: in primo luogo
sono state abolite le comuni, quindi si è tolta la forzatura dell’obbligo del
lavoro comune e c’è stata una ripresa del lavoro individuale. Sicuramente è
impossibile anche fare il confronto con gli anni ‘80: non esiste un paragone.
In questi ultimi cinque o sei anni i cambiamenti sono stati ancora maggiori.
Anche perché ormai si lavora con i mezzi meccanici . Tuttavia c’è anche uno
spopolamento delle campagne: sono molti i giovani che vanno in città. E’ la
mentalità contadina: guadagnano meno, ma vogliono muoversi e vedere il mondo.
Il primo dei suoi romanzi, “Sorgo rosso”, ha una voce narrante in prima
persona che parla di “mio padre” e “mio nonno” e racconta delle vicende
drammatiche durante l’invasione del Giappone: sono state le vicende vissute dai
suoi famigliari?
Alcune sono vicende vissute dai miei
famigliari, la maggior parte però riflette una realtà ben più ampia, quella dei
contadini di quell’area.
C’è l’immagine dominante del sorgo nel romanzo e del colore rosso:
quali altri significati hanno, oltre ad essere una pianta e il colore dei
frutti della pianta?
Sì, l’immagine del sorgo rappresenta una
visione più vasta: il sorgo rosso è il cereale più coltivato nel Nord della
Cina e rappresenta tutti i contadini cinesi. Il sorgo ha un grande spazio nel
cuore dei contadini cinesi, è come il grano qui da voi.
A proposito di “Sorgo rosso”, che cosa pensa del film che ne è stato
tratto? A mio parere è solo una pallida e noiosa resa di uno splendido libro.
Condivido la sua
opinione: è stato un problema tecnico, hanno fatto quello che hanno voluto, con
il film. D’altra parte credo che qualunque romanzo venga sacrificato se
trasformato in un film. Bisogna poi aggiungere che in Cina il film doveva
passare attraverso la censura ed era necessario attenersi alle loro regole. Per
un romanzo è più facile sfuggire alla censura, ci sono cose che nello scritto
sono ammesse. E poi, molto spesso, chi fa il censore, guarda il film e non
legge il libro.
I suoi romanzi abbondano di immagini molto forti, ad esempio le torture
di cui si parla ne “Il supplizio del legno di sandalo” sono terrificanti. Perché
ha scritto un romanzo che contiene tanta violenza?
Per questo romanzo ho
scelto di scrivere in maniera particolare, in uno stile descrittivo. E’ una specie di documentario dove ho
scelto di scrivere secondo la tradizione dell’opera locale, perché in Cina le
torture, le esecuzioni, sono sempre state viste come uno spettacolo. Esiste una
forma di collaborazione tra il giustiziato, il boia e il pubblico. Ho voluto
essere duro per vedere se mi riusciva di suscitare una reazione: come si può
pensare ad una cosa così tremenda come ad uno spettacolo?
Ma queste esecuzioni pubbliche non erano intese come ammonimento?
Lo Stato metteva in atto
queste forme di giustizia in pubblico per spaventare la gente, ma la gente le
recepiva come qualcosa di diverso, come uno spettacolo, un passatempo. Credo
che sia accaduto ovunque, pensiamo alla Francia e alla ghigliottina: il
pubblico guardava e non si poneva il problema di che cosa ci fosse dietro tutto
questo. Eppure chi va a vedere è brava gente: perché vanno? Ecco, scriverne è
un modo per far riflettere.
“Il supplizio del legno di sandalo” segue lo schema dell’opera dei
gatti a cui il romanzo spesso si riferisce: che cosa è di preciso l’opera dei
gatti? Ed è ancora popolare in Cina?
L’opera dei gatti esiste ancora nel mio
villaggio, Gao Mi, nello Shandong, che si trova nel Centro Nord della Cina.
L’opera dei gatti è una piccola branca dell’opera, sviluppata solo in
quell’area. E’ molto basilare, con costumi classici, le maschere, uno strumento
musicale particolare che viene chiamato “l’arpa del gatto”. Un tempo era uno
spettacolo improvvisato, ora inizia ad esserci un copione. Si è evoluta, non è
più l’opera dei gatti, sta diventando l’opera di Pechino.
Ci sono degli scrittori nella letteratura cinese che lei considera, in
qualche maniera, suoi “maestri”? E, nell’epoca della sua formazione letteraria,
pervenivano in Cina opere di scrittori stranieri?
Sì, c’è uno scrittore cinese che considero
il mio “maestro”: Pu Song Ling, dell’epoca Ching- più o meno 200 anni fa.
Scriveva storie di volpi e fantasmi. Lo ammiro per le storie che racconta e poi
c’è dell’altro: le storie di Pu Song Ling sono storie che avevo già sentito
raccontare dai miei genitori e d’altra parte anche Pu Song Ling le aveva
apprese dalla tradizione orale dei contadini.
Nella mia formazione culturale
non ho avuto modo di leggere molto- erano gli anni della Rivoluzione Culturale.
Poi, negli anni ‘80 ho iniziato a leggere autori stranieri: mi pareva di essere
un affamato che non mangiava da secoli, divoravo i libri. Avevamo molte
traduzioni: tra gli autori italiani il mio preferito è Calvino, ma ammiro
moltissimo anche “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, e poi Umberto Eco.
Il presidente Mao aveva svilito l’antica cultura cinese, c’è stato un
recupero di quella cultura nei tempi moderni?
Di fatto sì, c’è una gran volontà di tirare
nuovamente fuori la vecchia cultura cinese. I giovani sono alla ricerca di
tradizioni e desiderano ritrovare la vecchia cultura. E questo non solo nelle
università, anche nelle scuole elementari si è ripreso ad educare e ad
insegnare come nel tempo passato.
I suoi romanzi sono tutti ambientati in un’epoca passata: pensa di
scrivere, o ha già scritto, un romanzo dei nostri tempi?
Quello che è stato
pubblicato da poco in Cina parla di storia odierna, in Italia uscirà l’anno
prossimo, credo. E’ la storia di un proprietario terriero fucilato negli anni ‘50.
Ma era innocente e in Cina si crede nella reincarnazione e quest’uomo si
riincarna molte volte, come maiale, come bue e poi come scimmia, e racconta la
sua storia vista attraverso gli occhi degli animali. E’ un libro più buffo e
leggero degli altri precedenti.
E che cosa pensa del cambiamento che è avvenuto in Cina, del
capitalismo, delle trasformazioni della società? Come si trova in questa nuova
società?
Non riesco a capire come sia stato
possibile un cambiamento così veloce. Sono uno scrittore e scrivo storie di
uomini, guardo la società e vedo i problemi di corruzione, gli sprechi di
materie prime, come viene rovinato l’ambiente, ma, nonostante questi problemi,
la società si evolve rapidamente. Non saprei proprio come rispondere, non me lo
spiego, faccio fatica ad afferrarlo.
C’è qualcosa che le manca, del passato?
Mi mancano la natura e la semplicità della vita.
Ho pensato a lungo a questa forma di nostalgia, e ho deciso che forse non è
tanto l’ambiente che mi manca, ma è la gioventù di cui sento la mancanza. Anche
se allora si mangiava di meno, si parlava di meno, si avevano vent’anni: ora
vivo meglio ma non sono più giovane. Anche quando guardo i film vecchi, degli
anni ‘50 e ‘60: sì, sono semplici, però mi fanno venire la nostalgia. Di fatto,
quando vedo un film sull’esercito, non vedo il film, ma me stesso da giovane.
Avendo in mente i suoi romanzi, l’idea che ne deriviamo è che più che i
singoli personaggi, il vero protagonista dei libri sia la Cina : è la Cina che vuole dipingere in
realtà, nei vasti affreschi dei suoi romanzi?
Quello che dice è in
parte vero: è una mia speranza, di spiegare parte della Cina attraverso i
personaggi che incarnano la situazione cinese.
l'intervista è stata pubblica sulla rivista Stilos
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