Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Anita Rau Badami, “Le donne di Panjaur”
Ed. Marsilio, trad. Fabio
Zucchella, pagg. 387, Euro 19,50
Inizia in un tempo lontano il nuovo romanzo
della scrittrice indiana Anita Rau Badami, il cui romanzo precedente, “Il passo
dell’eroe”, oltre a svariati premi letterari all’estero, ha vinto il Premio
Giuseppe Berto per la narrativa straniera nel 2005. Incomincia, dunque, nel 1928 in un villaggio
agricolo del Punjab- se si cerca il Punjab su un atlante geografico, si vede
un’area triangolare in una zona di confine tra l’India e il Pakistan, e non ci
vuole molta immaginazione o conoscenza storica per pensare che questo è un
paese destinato a laceranti contese. E così è stato: con la Spartizione del 1947
la parte occidentale divenne parte del Pakistan e quella orientale dell’India,
tra migrazioni, lotte, uccisioni, vendette. Ma nel 1928 tutto questo è ancora
lontano e la piccola Sharan sa soltanto che odia fare quello che è il suo
compito quotidiano da quando ha quattro anni: raccogliere lo sterco di mucca e
spiaccicarlo con le sue manine sul muro esterno della loro misera casa. E
allora sogna la saponetta alla lavanda che c’è sempre a casa della sua compagna
di giochi- glielo spedisce il padre dal Canada.
carovana durante la Spartizione |
Sono due parole magiche, Canada e lavanda,
che evocano un mondo diverso da quello in cui Sharan vive, pieno delle
possibilità di realizzazione di quello a cui lei aspira, che è soprattutto
andare via dal puzzo che è sinonimo di miseria. Sharan è straordinariamente
bella, sua sorella Kanwar non lo è affatto: è una colpa, quella di Sharan, di
usare l’unica cosa che ha ricevuto in dono dalla natura e rubare il possibile
marito alla sorella? Perché questo è quello che Sharan fa, la molla che fa
scattare la trama, e il furto dell’uomo che è venuto in visita dal Canada per
chiedere la mano di Kanwar diventa il furto di una vita. E’ come se le due
sorelle si scambiassero le sorti, da questo momento in poi: sarebbe stata
Kanwar ad andare in Canada e a fare fortuna insieme al marito sikh, mentre
Sharan avrebbe attraversato gli orrori della Spartizione, perdendosi in questa.
Ma sarebbe stata capace Kanwar di ambientarsi così bene, di gestire il
ristorante in cui si radunano gli indiani di Vancouver? E Sharan, che non resta
mai incinta, avrebbe avuto tanti figli come sua sorella?
L’ultimo capitolo di “Le donne di Panjaur”
(bellissima la copertina dai colori arancio-rosso con le donne velate che ci
incuriosiscono con nascoste promesse) è ambientato nel 1986: la storia delle
due sorelle e del loro affascinante e tormentato paese si è srotolata per mezzo
secolo; a Vancouver si vive pensando al Punjab, seduti ai tavoli del Delhi
Junction, sikh e indù insieme, attendendo notizie, commentando la politica d’Indira
Gandhi; a Nuova Delhi la figlia di Kanwar, sopravvissuta ad una notte di orrori
e di sangue di cui per sua fortuna ricorda poco, vive la sua piccola vita
quotidiana con marito e figli, ammira Indira Gandhi, va ad ascoltarla ai
raduni. Finché il caso, o il destino nelle vesti di un personaggio simbolico
perché è ‘metà e metà’, per metà indiana e per metà tedesca, fa riincontrare le
due metà del mondo e, ancora una volta, Sharan si ritrova a rubare qualcuno- il
figlio di sua nipote, questa volta- chiedendo che le venga affidato per farlo
studiare in Canada.
Non sveliamo il finale, anche se ne
troviamo un indizio nella dedica del libro. Diciamo però che, pur avendo già
ammirato il primo romanzo di Anita Rau Badami, “Le donne di Panjaur”, con la
sua ricchezza di personaggi e di temi, la profondità e la sottigliezza con cui
questi vengono trattati, ci pare un’opera più matura e più bella. E ci viene da
pensare che non c’è maniera migliore di apprendere la storia che attraverso un
romanzo.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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