Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Recensione de “Il passo dell’eroe” e intervista ad Anita Rau Badami
Un telefono squilla a lungo, una
mattina presto nella Grande Casa dei Rao a Toturpuram, in India, una voce
lontana porta la notizia che la figlia di Sripathi è morta in un incidente
d’auto in Canada. Un dolore che scende nelle viscere, perdere un figlio- c’era
stato un legame strettissimo tra Sripathi e la figlia Maya, un amore assoluto,
un’intesa fin da quando lui aveva visto la bimba appena nata. E il dolore è
intensificato dal rimorso, dalla sensazione della perdita di anni non goduti,
perché Sripathi aveva ripudiato sua figlia quando lei aveva sposato uno
straniero. “Il passo dell’eroe” (Ed. Marsilio, pagg. 407, Euro 19,00) della
scrittrice indiana Anita Rau Badami è un romanzo sui legami famigliari, sul
senso di perdita, sulle aspettative deluse e sull’accettazione degli altri,
attraverso la storia della famiglia Rao, tre generazioni che convivono nella
vecchia casa, una volta splendida e ora fatiscente. Quando la piccola Nandana
arriva dal Canada a vivere con i nonni che non ha mai conosciuto, sono i suoi
occhi di bambina di sette anni che osservano le stranezze dei comportamenti di
una bisnonna egoista e avara, di una zia che non si è mai sposata perché la
madre ha rifiutato per lei tutti i pretendenti, dello zio pacifista che non
lavora e partecipa ad ogni manifestazione, del nonno che si sente ancora in
colpa per non aver studiato medicina come avrebbe voluto sua madre- solo la
nonna dal cuore grande si salva in questo paese nuovo di cui nulla le piace.
Una serie di catastrofi finali- una morte, una malattia, un rapimento, un
tracimare delle fogne- culminerà con un violento monsone che laverà via
vecchiumi e pregiudizi, dolori e risentimenti.
C’è un’immagine che ritorna di frequente,
nel romanzo di Anita Rau Badami, ed è quella del dio eroe, che incede con passo
dignitoso, coraggioso ma umile, in contrasto con quello del suo presuntuoso
rivale. E forse è un eroe che può passare per antieroe, Sripathi Rao, l’uomo
vissuto nell’ombra di un padre che era uno stimato avvocato, ma anche un
puttaniere che regalava gioielli falsi alla moglie, manteneva delle amanti, ed
era morto lasciandoli in rovina. Sripathi è un copywriter senza immaginazione,
un Herzog che si sfoga scrivendo lettere quotidiane di protesta ai giornali, un
figlio, un marito, un padre e un nonno che si prende carico di tutti, anche se
la sua rigidità gli ha fatto perdere una figlia e lo ha allontanato dal figlio.
Ma tutti i personaggi del romanzo soffrono di una perdita, anche quelli minori,
l’amico Raju che è rimasto solo con una figlia disabile, la vicina di casa
pazza che continua ad aspettare la sua bambina che è scomparsa, persino la
bisbetica bisnonna, andata sposa a tredici anni e tradita dal marito, e
soprattutto la piccola Nandana, che ha perso entrambi i genitori e il mondo in
cui ha vissuto. Con finezza psicologica e tocco leggero, Anita Rau Badami ha scritto
un romanzo sul vecchio e sul nuovo, sulle diversità che l’amore e la generosità
possono colmare. Stilos ha intervistato Anita Rau Badami, che è nata e
cresciuta in India ma vive dal 1991
in Canada, dove insegna alla British University of
Columbia.
Il suo secondo nome è Rau e il cognome della famiglia nel suo romanzo è
Rao: è sua la voce della deliziosa bambina del libro?
No, però Rau è un cognome molto comune nel Sud dell’India ed
è per questo che l’ho usato.
La bambina dà voce al suo disagio nell’affrontare una vita diversa da
quella a cui era abituata e questo è, in parte, il tema del libro, ma che cosa
significa, invece, lasciare l’India per il Canada? Che cosa ha significato per
lei?
Adesso mi sono abituata
al Canada, ma ho trovato molto difficile lasciare l’India, avevo ventinove anni
quando me ne sono andata. L’India è un paese ricco di storia, di colore, di
rumori; ogni volta che guardi fuori dalla finestra c’è qualcosa che succede
davanti ai tuoi occhi. Non si ha bisogno di cercare delle storie: sono tutte
lì, pronte.
In Canada mi mancava soprattutto il rumore e il contatto con le
persone. Ormai vivo in Canada da quindici anni e ho imparato ad amarlo, ma in
un’altra maniera. Mi manca l’India, vado ogni anno in India, vivo con un piede
in entrambi i mondi. E poi mi è stato molto difficile abituarmi al clima.
Quando sono atterrata a Calgary, faceva un freddo tremendo. Avevo lasciato 40°
in India, mio marito mi aveva detto che era primavera a Calgary. Il fatto è che
lui aveva superato l’inverno in cui la temperatura era scesa a 50° sotto zero e
adesso c’erano solo 15° sotto zero.
Mi sono sentita molto sola, c’era tanto silenzio, nessuno per le strade, mi capitava di essere l’unica sugli autobus. Mi sembrava di impazzire. Abitavamo in un appartamento in un seminterrato, era buio, mi sentivo depressa, come un animale in gabbia. Poi ho iniziato a lavorare, ho fatto qualcosa che non avrei mai fatto in India, vendevo porcellane, ho iniziato a incontrare persone, ho avuto un lavoro nella biblioteca dell’università, ho incontrato persone molto gentili. E forse sono stata fortunata, perché non ho mai percepito del razzismo nei miei confronti.
Nel romanzo tre generazioni vivono sotto lo stesso tetto: sono ancora
così stretti i legami famigliari in India?
C’è una differenza tra le
grandi e le piccole città. Nelle città le famiglie si frammentano di più, ma è
anche molto comodo vivere insieme, perché i nonni si prendono cura dei bambini.
E’ ancora comune che, come avviene nel libro, le ragazze che non si sposano
siano responsabilità del fratello maggiore. Ogni volta che torno in India, devo
assolutamente andare a stare con le mie zie altrimenti si offendono. Per loro
sarebbe un insulto se non andassi, perché sono loro la mia famiglia in India.
Putti finisce per sposare il suo Gopala, che appartiene ad una casta
inferiore: significa che il sistema delle caste si sta allentando?
Anche in questo caso
dipende, la realtà nelle città è diversa da quella nei villaggi. Penso che la Tv , internet, le forme moderne
di comunicazione aiutino a spezzare le vecchie barriere. Nel libro si parla di
una piccola città, ma io volevo dare a Putti un finale felice. E così non deve
più dipendere dal fratello.
Come è vissuta la religione oggigiorno in India? Nel mondo occidentale
ha perso molta della sua forza, forse non nell’essenza ma certamente nei riti e
nel culto. E’ la stessa cosa in India ?
In India è diverso. La
maggioranza della popolazione è indù, ma ci sono anche molti musulmani e
cristiani. Parlo per gli indù perché sono quelli che conosco: alcuni sono
fanaticamente religiosi, ma per lo più la maniera in cui praticano la religione
è più allentata, i rituali vengono eseguiti perché segnano momenti precisi
dell’anno in cui si fa festa e ci si ritrova insieme. La religione in India- e
si deve vivere là per capirlo- permea la vita quotidiana. E’ una mescolanza di credenze,
ci sono molte divinità, folklore e mitologia e superstizione. Per esempio, a
casa mia, anche se mio padre e mia madre non erano religiosi, ci tenevano
moltissimo che celebrassimo le feste e seguissimo il cerimoniale. C’erano
regole di tipo religioso per ogni attività della giornata, anche per cose
comuni come lavarsi i capelli. Ogni cosa può trasformarsi in un piccolo tempio
in India, un albero o anche una pietra che viene ornata con una ghirlanda di
fiori perché rappresenta un dio. Per la religione induista ogni cosa può
contenere la divinità. Se lasciavamo cadere a terra un libro, insultavamo il
dio della sapienza: dovevamo raccogliere il libro, toccarci il capo, baciare il
libro, toccarci il cuore e poi potevamo posarlo. Significava che chiedevamo
scusa al libro
Restiamo incerti sul personaggio di Sripathi: è un eroe umile che porta
il suo fardello o è un antieroe?
Ogni lettore può
decidere come vuole, riguardo a Sripathi. Io non volevo farne un eroe, volevo
lasciare l’elemento di incertezza. Sripathi scopre che l’eroismo non è
necessariamente nei grandi atti ma può essere anche nelle piccole cose, come
amare e accettare la bambina.
Tuttavia il personaggio veramente positive del libro è Nirmala, come
moglie, come madre e come nonna.
Ho visto tante donne come
lei nella società indiana o anche in quella occidentale. Sono donne molto dolci
che si accordano con la personalità di qualcuno più aggressivo, ma alla fin
fine sono loro la forza su cui si basa la casa. Se lei crollasse, sarebbe la fine. Lei è la
forza gentile. Volevo nel libro un personaggio che fosse del tutto buono
e integro.
Che lingua parlerebbe una famiglia a Toturpuram, il villaggio in cui si
svolge la vicenda?
Parlerebbero una
combinazione di kannada (una lingua del Sud dell’India) e inglese. Tra di loro
parlerebbero in questa lingua mista, ai servitori si indirizzerebbero in tamil,
invece. La nonna parlerebbe certamente solo in kannada, ance se sa e capisce
l’inglese.
Il libro termina con una bellissima immagine, quella delle tartarughe
che vengono a riva per depositare le uova: è un’immagine metaforica?
C’è una spiegazione per
questa scena: Sripathi si è sempre visto come al centro dell’esistenza, non si
è mai visto nel contesto del mondo, non ha mai visto quanto sia piccolo lui e
quanto siano piccoli i suoi interessi. All’inizio del libro Sripathi è seduto
sul terrazzo e guarda l’oceano che si intravede come una linea sottile. Alla
fine c’è lui in piedi davanti all’oceano: è un piccolo punto nello schema dell’esistenza
più grande dell’universo. Io non ho mai visto lo spettacolo delle tartarughe,
ma ne ho sentito parlare: succede verso novembre e vengono a migliaia per
lasciare le uova. Ero affascinata da queste creature che sono da centinaia di
anni nell’universo e loro stesse vivono per centinaia di anni. C’è qualcosa di
inevitabile nel fatto che vengano ogni anno, lascino le uova e se ne vadano.
Gli esseri umani sono così ossessionati da loro stessi. Pensiamo di essere così
importanti e invece non lo siamo. Siamo condannati come le tartarughe a fare
sempre gli stessi errori. Sripathi ha la possibilità di redimersi, di fare
qualcosa nel resto della sua vita, di cambiare.
Anita Rau Badami |
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