lunedì 24 giugno 2024

Alvydas Šlepikas, “Il mio nome è Maryté” ed. 2024

                                                 Voci da mondi diversi. Lituania

    seconda guerra mondiale

Alvydas Šlepikas, “Il mio nome è Maryté”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Adriano Cerri, pagg. 256, Euro 20,90

 

    Aveva sette o otto anni. Le avevano detto che, se glielo domandavano, doveva dire “Il mio nome è Maryté”. Non sapeva dire nient’altro in lituano, ma mai, assolutamente mai, i soldati russi dovevano sospettare che lei si chiamasse in realtà Renate e fosse tedesca. L’avrebbero uccisa.

   Si stima siano stati circa 45.000 i bambini o ragazzi tedeschi della Prussia Orientale che in qualche maniera riuscirono ad arrivare in Lituania, mentre l’Armata Rossa avanzava e ai tedeschi di quei territori veniva proibito, in un primo tempo, di evacuare. Erano per lo più orfani o bambini lasciati indietro dai genitori portati via a forza nei campi di lavoro oppure addirittura venduti per un poco di cibo per sfamare gli altri figli. Li chiamavano “Wolfskinder”, i figli del lupo, o i bambini lupo, perché giravano affamati nelle foreste, mangiando qualunque cosa fosse più o meno commestibile. Si offrivano per lavorare nelle fattorie e molti contadini lituani, per interesse o per generosità, li alloggiarono anche se era proibito- chi dava lavoro ai bambini tedeschi poteva essere mandato in Siberia, se scoperto o denunciato.


    Il libro di Alvydas Šlepikas ci racconta della odissea dei ‘piccoli tedeschi’ in una narrativa spezzata e frammentata come lo era la vita dei bambini e di quello che restava della loro famiglia. Il piccolo nucleo famigliare che conosciamo all’inizio, formato da mamma, zia e bambini a cui si aggiunge poi un’amica con i suoi due figli, si assottiglia a poco a poco. Il primo ad allontanarsi è il maschietto più grande- andrà in Lituania nascosto in un carico di carbone su un treno merci e poi tornerà indietro con le cibarie che è riuscito a procurarsi. È la prima parte di una storia che ci paralizza il cuore tra compassione e incredulità. Ci chiediamo quanto grande sia stata la disperazione di una madre per spingere un figlio dodicenne verso un’impresa difficile e pericolosa anche per un adulto. Ci chiediamo quanto grande sia stato il coraggio e il senso di responsabilità e l’altruismo di un bambino che non mangia quello che porta nello zaino per non privarne il fratellino minore che piagnucola di continuo, ‘ho fame’. Ci chiediamo quanto grande sia stato il terrore di una donna- perché ha visto come è stata ridotta la sua amica- per impiastricciare i visetti delle sue bambine per risparmiarle dalla bestialità dei soldati russi.


    Nella gelida legnaia che è diventata la loro casa il ragazzino non trova più nessuno ed è un altro frammento di storia che seguiamo, quello che ha in primo piano la sorellina Renate diventata Maryté. Anche lei si offriva per fare qualunque lavoro (chi l’avrebbe presa, così piccola?), credeva di essere stata fortunata, di aver trovato un nuovo papà e una nuova mamma…

    Nella postfazione lo scrittore dice di aver saputo di due bambine con questo nome, due bambine diventate donne che non volevano si venisse a sapere del loro passato e infatti solo dopo il 1990, dopo la fine dell’Unione Sovietica, quelli che erano stati i Wolfskinder poterono rivelare la loro identità. Quanti lo avranno fatto? Quanti avranno preferito non disseppellire ricordi traumatici? Quanti avranno scelto di mantenere nome e cognome lituani piuttosto che riprendere una identità tedesca che non diceva loro nulla?

    Nel 2010 c’erano ancora un centinaio di quegli ex-bambini che vivevano ancora in Lituania. Mentre quella tedesca non contempla alcun risarcimento per gli ex-bambini lupo, la legge lituana concede loro una piccola pensione aggiuntiva.

   Un film di Rick Ostermann, del 1913 ricorda l’odissea dimenticata dei bambini lupo.



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