Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
Paul Harding, “Un altro Eden”
Ed. Neri Pozza, trad. Massimo Ortelio, pagg. 221, Euro
18,00
Dal 1793 al
1912- tanto lunga o tanto breve è stata la vita di una comunità sull’isola di
Malaga, nel golfo del Maine, rinominata Apple Island nel romanzo di Paul
Harding.
L’isola delle mele perché in quella fine
del secolo XVIII Benjamin Honey, nero nato in schiavitù, e la moglie irlandese
erano arrivati sull’isola con un sacchetto di semi di mela- era il sogno di Benjamin,
di diventare un frutticultore. A poco a poco l’isola si era popolata con una
comunità di emarginati, pescatori afroamericani, bianchi poveri, irlandesi, indiani,
che vivevano di pesca e di quel poco che la terra offriva, in condizioni
veramente miserande. Non se ne rendevano conto, però- si può sentire la
mancanza di quello che non si sa neppure esista?
Era inevitabile che, essendo così pochi, si accoppiassero tra di loro- padri con le figlie, fratelli con sorelle. Nella Bibbia non ci viene detto, ma, dopo la fine del diluvio universale, non avevano fatto forse lo stesso, per ripopolare la terra, quelli che erano sull’arca e si erano salvati? Era inevitabile anche che ci fossero delle conseguenze geneticamente e che, nella stessa famiglia, ci fossero bambini dalla pelle scura, mulatti, o biondi e rosei. I Lark, poi, erano tutti ‘scoloriti’, pallidi come fantasmi e non sopportavano la luce del sole- i genitori dei bambini erano fratello e sorella. C’erano poi gli Honey, discendenti di Benjamin-, la vecchia Esther il cui figlio era anche suo fratello. Lei aveva avuto la tentazione di ucciderlo. Aveva ucciso qualcun altro. E c’erano le due sorelle che passavano le giornate lavando i panni degli altri, e Zachary Hand to God Proverbs che viveva dentro un albero cavo intagliando piccole sculture di legno.
E poi c’era il missionario bianco Matthew
Diamond che remava ogni giorno fino all’isola e insegnava ai bambini a leggere
e scrivere. Una delle bambine aveva imparato perfino il latino, un’altra era un
genio della matematica, un altro era un artista. Eppure Matthew Diamond non
poteva fare a meno di esprimere il suo disgusto di fronte ad un nero e fu
proprio lui a portare la catastrofe sull’isola segnalando la presenza della
comunità che viveva secondo le sue proprie leggi al governatore del Maine.
Quando sull’isola arrivano medici e
specialisti con strani attrezzi per misurare il cranio degli abitanti e per
verificare le condizioni di vita, non vedono nessun paradiso terrestre ma solo
la sporcizia, i pidocchi, la promiscuità, gli stracci che fungono da abiti, la
puzza, l’incredibile puzza. E decretano la fine di questo piccolo mondo: i
quarantasette residenti saranno deportati, alcuni di loro saranno internati in
un istituto per deboli di mente.
La scena dei preparativi, del prelievo forzato, della partenza è straziante. È verso una vita migliore che vengono condotti? Può qualcuno arrogarsi questo diritto?
Lo stile di Paul Harding infonde poesia nel
realismo, raggiunge un tono epico nel racconto dell’uragano fatto dalla vecchia
Esther che narrava come se lei stessa fosse stata la donna che si arrampicava
su un albero stringendo un bambino al petto per resistere alla furia del vento
e delle acque. È come rivivere la scena della Bibbia, è un anticipo della fine
che verrà veramente, un secolo dopo, ma allora erano state le forze della
natura a scatenarsi, adesso erano uomini quelli che strappavano altri uomini
dalle loro case e dalla loro terra.
Dopo il libro di Caroline Laurent, “La
riva della collera”, un altro romanzo, simile per molti versi, che ci rivela un
sopruso, uno sradicamento, una tragica fine.
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