copyright A. Kaufmann Un libro di viaggio ha sempre un fascino
tutto suo, sia che faccia tornare alla mente paesaggi visti durante un nostro
viaggio o che faccia sognare di scenari e paesi che abbiamo sempre desiderato
vedere. Il libro “L’avventuriero” di Gianni Dubbini Venier ha un doppio
fascino, perché ci parla di un viaggio nel presente che però segue le tracce di
quello fatto da un ragazzo veneziano nel secolo diciassettesimo. Ne parliamo
con lo scrittore.
All’inizio del libro racconta come si è
imbattuto in Nicolò Manucci e come ha iniziato le ricerche su di lui. Be’,
poteva finire lì, poteva pensare ‘che tosto questo ragazzino’. E invece si è
letteralmente messo sulle sue tracce. Che cosa lo ha spinto?
Ottima domanda. Mi ha spinto il desiderio
di ripercorrere l’itinerario di un mio conterraneo e poi volevo allinearmi con
una tradizione che non è propria del nostro paese, quella della letteratura di
viaggio. Ho avuto la fortuna di avere come maestro William Dalrymple- lo
conosco dal 2012- e ho avuto un percorso di formazione in Inghilterra, dove mi
sono specializzato in archeologia orientale alla SOAS- School of Oriental and
African Studies- dell’Università di Londra. Volevo seguire la tradizione del
mondo anglosassone seguendo le tracce di qualcuno, ma pensando ad un viaggio
nel presente in luoghi caldi del mondo- era il momento della guerra in Siria-,
volevo guardare con occhi del presente quello che un viaggiatore vedeva nel
passato.
Con la debita differenza di età, si è
sentito ‘il doppio’ di Nicolò durante questa esperienza?
Nicolò aveva quattordici anni, io ero il
suo ‘doppio’ e tuttavia non è che io fossi lui o qualcosa del genere, non mi
sono immedesimato in lui. Era una guida che andava ricontestualizzata, era un
viaggio da adattare al mondo contemporaneo. Per tutti e tre- per Nicolò, per
Angelica, la fotografa che mi accompagnava, e per me- è stato un viaggio di
formazione. Dobbiamo pensare che nel ‘600 a 14 anni si era già uomini. La carriera
del mozzo, del midshipman, iniziava ad un’età molto giovane. In quel senso io,
a 27 anni, ero ancora un ragazzino.
È stato un viaggio avventuroso e
affascinante su cui ora Le farò una serie di domande:
qual è stato- se c’è stato- il momento in cui ha avuto più paura per se
stesso?
In Turchia, quando ci fu una serie di
attentati dal 27 luglio del 2015 all’agosto dello stesso anno. Il presidente Erdoğan
aveva riaperto il conflitto con i curdi e noi stavamo vivendo un momento
storico, attraversavamo regioni in un periodo di cambiamenti epocali. Il 4
agosto i guerriglieri curdi del PKK fecero saltare in aria la caserma turca di Doğubayazit.
A seguito di questo furono chiuse le frontiere con l’Iran, noi ci trovavamo
nella zona orientale e molte strade di quell’area furono fatte saltare, un
autobus di turisti fu preso in ostaggio in un posto non lontano da dove ci trovavamo
noi- tutto sempre per mano dei guerriglieri curdi. Ci furono poi anche
attentati dell’Isis a Sud e altri ancora a Istanbul…
Qual è stato il
tratto più difficile del percorso?
Per i nervi, il tratto più difficile è stato
quello turco dove eravamo esposti ad eventi di un’attualità dirompente. Per il
nostro fisico, invece, è stato l’attraversamento della frontiera tra Armenia e
Iran. C’era stato l’incidente sul fiume Aras, avevamo dovuto attraversare la
frontiera a piedi, con una temperatura di 50 gradi.
Lo spettacolo che più
lo ha emozionato?
Il monte Ararat, visto dal
monastero di Khor Virap, perché quello era finalmente il luogo dove ci
ricollegavamo all’itinerario di Manucci. Ce la stavamo facendo, dopo la
deviazione causata dai confini blindati tra Armenia e Turchia per le relazioni
compromesse dalla questione del genocidio armeno non riconosciuto dai turchi in
quanto tale. Un’emozione metafisica causata dal paesaggio, la cima innevata che
si stagliava contro il cielo e poi l’euforia di essere vicini al successo del
viaggio- non avevamo affatto avuto la sicurezza di poter uscire dalla Turchia.
L’esperienza più ‘strana’ o insolita che
ha vissuto?
La fortuna di vedere gli atleti iraniani
che ci hanno concesso di assistere agli allenamenti della loro ginnastica
tradizionale, lo zurkaneh, una specie di arte marziale che proviene dal sufi. È
stata un’esperienza unica, anche perché, oltretutto, le donne non sono ammesse
ed è stata fatta un’eccezione per Angelica.
Di tutte le conoscenze fatte, quale la
più memorabile e significativa?
Il libraio di Isfahan, Iman. Mi ha dato lui
stesso il permesso di fare il suo nome, perché racconta la sua esperienza di
vendere titoli difficili da reperire in Iran, sottoposti a censura. Non posso
dimenticare la sua ospitalità, come gestisce la libreria, con edizioni in farsi
di libri come il ‘Candide’ di Voltaire- qualcosa di inimmaginabile, trovare la
traduzione in farsi di libri come questo. Certo, c’è anche il Corano tra i
libri che vende, ma sta accanto a Woody Allen, al Decamerone di Boccaccio. Non
dimenticherò le nostre discussioni, il nostro parlare di quello che succede in
Iran. E parlo tuttora con lui. È un’emozione capire meglio quello che succede
tramite qualcuno che vive queste esperienze. Non riusciamo neppure ad
immaginare che cosa voglia dire essere sempre a rischio di arresto e di tortura
per quello che si fa o si dice. Non nei nostri tempi, almeno.
Il luogo dove tornerebbe subito, se
potesse?
Isfahan. Tornerei ad Isfahan, andrei a
trovare il mio amico, andrei a rivedere la piazza- Meidan Naqsh-e-jahan in
persiano, cioè ‘l’immagine del mondo’, la seconda piazza più grande del mondo, con
quella splendida cupola azzurra, e il Chehel Sotoun, il palazzo per ricevere
gli ambasciatori stranieri, il bazar… |
Chehel Sotoun. il Palazzo delle Quaranta Colonne |
Ha qualche rimpianto per qualcosa che
non è riuscito a fare?
No, sinceramente no. Anche la scelta di fare
il viaggio in due pezzi ha un suo perché: siamo ripartiti dallo stesso punto.
Vorrei ancora andare in India, spero di farlo quest’anno.
Ecco, a proposito di un viaggio in
India- ha in programma un altro libro?
Sì, come ho scritto nel poscritto del
libro, vorrei continuare l’itinerario di Manucci nel subcontinente indiano. Lui
ha vissuto in un tempo in cui non c’erano ancora le divisioni create dalla
colonizzazione con le loro disastrose conseguenze. Io vorrei andare nell’India
come l’aveva vista Manucci, senza tener conto delle frontiere, vorrei andare
nel subcontinente indiano, nell’India come entità geografica e culturale che
nel mondo Mogul di Manucci si estendeva da Kabul al Sud includendo Dacca e
Lahore.