vento del Nord
Shoah
biografia
Jan Brokken, “I giusti”
Ed. Iperborea, trad. Claudia Cozzi,
pagg. 640, Euro 19,50
Lo chiamavano “L’Angelo di Curaçao”.
Perché aveva ideato la formulazione giusta per salvare la vita ai profughi
ebrei polacchi che erano arrivati in Lituania in fuga dai nazisti nel 1940.
Lui, Jan Zwartendijk, che prima di diventare ‘l’Angelo di Curaçao’ aveva un
altro soprannome più terreno, Mr. Radio Philips, perché dirigeva la filiale
Philips a Kaunas, era stato nominato da poco console in sostituzione del
tedesco Tillmanns, inaccettabile con quei venti di guerra che soffiavano sempre
più forti. Il 15 giugno 1940 i carri armati russi erano entrati a Kaunas e i
primi due profughi richiedenti il visto si erano presentati al consolato che
poi era una stanza nella stessa palazzina degli uffici della Philips.
Era andata così: a Peppy
Sternheim Levin e Nathan Gutwirth che richiedevano un visto, Zwartendijk aveva
detto di rivolgersi all’ambasciatore olandese a Riga, De Decker (teniamo a mente
il nome, perché è uno dei grandi uomini di questa storia). De Decker li aveva
rimandati da Zwartendijk a Kaunas con il suggerimento che includeva la parola
magica ‘Curaçao’: le Antille olandesi, tra cui Curaçao, non richiedevano alcun
visto, soltanto un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Bastava quindi
che il loro passaporto riportasse la dichiarazione che, per accedere ai
territori olandesi nel Nord e nel Sud America, incluso il Suriname e Curaçao,
NON era necessario alcun visto. Che non fosse del tutto esatto, nessuno lo
avrebbe saputo.
Zwartendijk con due dei tre figli |
Per un mese o poco più di un mese, perché ai primi di agosto furono
chiusi entrambi i consolati, Zwartendijk scriveva e firmava i passaporti che
poi passavano a Sugihara che calligrafava il suo visto di transito in sei
colonne di caratteri giapponesi- dalla mattina alla sera, interrompendosi ogni
tanto per riprendere il lavoro con sensi di colpa, una persona dopo l’altra
sfilava davanti ai due uomini che a mala pena alzavano gli occhi per guardarli
in faccia. Sugihara aveva i crampi alla mano, ogni visto era valido per un
gruppo famigliare, un visto per quattro o cinque persone: fu questo che rese
poi difficile fare il conto di quante persone si erano salvate con questo
espediente.
Il Talmud dice che in qualunque momento della storia, esistono almeno 36
Giusti al mondo. Nel 1940 due di loro si trovavano a Kaunas, uno a Stoccolma
(Adrian Mattheus De Jong), uno a Kobe (Nicolas De Voogt) e uno a Tokyo (il
conte Tadeus Romer). In questo libro straordinario Jan Brokken- sappiamo quanto
sia bravo lo scrittore a riportare in vita il passato, a far rivivere le persone
su carta- fa riemergere quel mese cruciale, mette a fuoco le personalità di
Zwartendijk e di Sugihara (loro due sono i veri protagonisti anche se
l’attenzione di Brokken è rivolta maggiormente al suo connazionale), ci
racconta le vicissitudini dei profughi di cui è venuto a conoscenza durante una
ricerca che è durata anni, e quel mese fatidico si
allunga in anni, vede uomini e donne viaggiare in treno e poi in nave (Brokken
ricorda anche l’infelice storia della nave St.Louis diretta a Cuba e costretta
poi a tornare ad Anversa con il suo carico di ebrei), sbarcare in Giappone
(vivere a Kobe era sembrata una vacanza) e poi essere evacuati a Shanghai (c’è
una lista di nomi fusi in bronzo sul muro della sinagoga di Hongzhou). Per poi tornare
a parlarci di Zwartendijk e Sugihara, dell’ingiustizia di cui furono vittime,
il primo umiliato nel 1964 da una reprimenda del governo olandese per non
aver rispettato le regole, e il secondo costretto a dare le dimissioni per lo
stesso motivo (Sugihara vendette lampadine da porta a porta per guadagnarsi da
vivere). Il nome di Sugihara apparve nel Giardino dei Giusti a Yad Vashem nel
1985, quello di Zwartendijk dovette aspettare il 1998, dopo che il figlio fece
ricorso.
Tanti passaporti in cerchio in questo monumento a Zwarrtendijk a Kaunas |
Quello che è più triste, nella storia di questi Giusti, è che quattro di
loro morirono senza sapere che ne fosse stato delle persone per cui avevano
rischiato la vita e la carriera. Per Zwartendijk- lo dicono i figli-
l’interrogativo fu un rovello e un dolore costante. Quello che importava era
aver agito secondo coscienza, e tuttavia, non era solo per curiosità, piuttosto
per sapere se tutto avesse avuto un senso o fosse stato inutile.
Un libro splendido, assolutamente da leggere. Per rendere onore a dei
grandi uomini con il nostro ricordo, per trarne consolazione e speranza- finché
esistono persone capaci di obbedire ad un ordine etico interiore senza curarsi
dei rischi per se stessi, possiamo avere ancora fiducia nell’umanità.
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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it
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