mercoledì 26 febbraio 2020

Jan Brokken, “I giusti” ed. 2020


                                                      vento del Nord
                                                     Shoah
                                                     biografia

Jan Brokken, “I giusti”
Ed. Iperborea, trad. Claudia Cozzi, pagg. 640, Euro 19,50

    Lo chiamavano “L’Angelo di Curaçao”. Perché aveva ideato la formulazione giusta per salvare la vita ai profughi ebrei polacchi che erano arrivati in Lituania in fuga dai nazisti nel 1940. Lui, Jan Zwartendijk, che prima di diventare ‘l’Angelo di Curaçao’ aveva un altro soprannome più terreno, Mr. Radio Philips, perché dirigeva la filiale Philips a Kaunas, era stato nominato da poco console in sostituzione del tedesco Tillmanns, inaccettabile con quei venti di guerra che soffiavano sempre più forti. Il 15 giugno 1940 i carri armati russi erano entrati a Kaunas e i primi due profughi richiedenti il visto si erano presentati al consolato che poi era una stanza nella stessa palazzina degli uffici della Philips.
     Era andata così: a Peppy Sternheim Levin e Nathan Gutwirth che richiedevano un visto, Zwartendijk aveva detto di rivolgersi all’ambasciatore olandese a Riga, De Decker (teniamo a mente il nome, perché è uno dei grandi uomini di questa storia). De Decker li aveva rimandati da Zwartendijk a Kaunas con il suggerimento che includeva la parola magica ‘Curaçao’: le Antille olandesi, tra cui Curaçao, non richiedevano alcun visto, soltanto un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Bastava quindi che il loro passaporto riportasse la dichiarazione che, per accedere ai territori olandesi nel Nord e nel Sud America, incluso il Suriname e Curaçao, NON era necessario alcun visto. Che non fosse del tutto esatto, nessuno lo avrebbe saputo.

Zwartendijk con due dei tre figli
Del fatto che il viaggio sarebbe stato lunghissimo sembrava non preoccuparsi nessuno: l’unica via era attraversare tutta la Russia sulla Transiberiana fino a Vladivostok (l’NKVD avrebbe dato il permesso), poi in traghetto fino a Tsuruga in Giappone e da lì si sperava di poter partire per l’Australia o la Nuova Zelanda o gli Stati Uniti. Per il Giappone era necessario un visto di transito- ed ecco entrare in campo il terzo grande uomo, il console del Giappone a Kaunas, Chiune Sugihara.
    Per un mese o poco più di un mese, perché ai primi di agosto furono chiusi entrambi i consolati, Zwartendijk scriveva e firmava i passaporti che poi passavano a Sugihara che calligrafava il suo visto di transito in sei colonne di caratteri giapponesi- dalla mattina alla sera, interrompendosi ogni tanto per riprendere il lavoro con sensi di colpa, una persona dopo l’altra sfilava davanti ai due uomini che a mala pena alzavano gli occhi per guardarli in faccia. Sugihara aveva i crampi alla mano, ogni visto era valido per un gruppo famigliare, un visto per quattro o cinque persone: fu questo che rese poi difficile fare il conto di quante persone si erano salvate con questo espediente.

     Il Talmud dice che in qualunque momento della storia, esistono almeno 36 Giusti al mondo. Nel 1940 due di loro si trovavano a Kaunas, uno a Stoccolma (Adrian Mattheus De Jong), uno a Kobe (Nicolas De Voogt) e uno a Tokyo (il conte Tadeus Romer). In questo libro straordinario Jan Brokken- sappiamo quanto sia bravo lo scrittore a riportare in vita il passato, a far rivivere le persone su carta- fa riemergere quel mese cruciale, mette a fuoco le personalità di Zwartendijk e di Sugihara (loro due sono i veri protagonisti anche se l’attenzione di Brokken è rivolta maggiormente al suo connazionale), ci racconta le vicissitudini dei profughi di cui è venuto a conoscenza durante una ricerca che è durata anni, e quel mese fatidico si allunga in anni, vede uomini e donne viaggiare in treno e poi in nave (Brokken ricorda anche l’infelice storia della nave St.Louis diretta a Cuba e costretta poi a tornare ad Anversa con il suo carico di ebrei), sbarcare in Giappone (vivere a Kobe era sembrata una vacanza) e poi essere evacuati a Shanghai (c’è una lista di nomi fusi in bronzo sul muro della sinagoga di Hongzhou). Per poi tornare a parlarci di Zwartendijk e Sugihara, dell’ingiustizia di cui furono vittime, il primo umiliato nel 1964 da una reprimenda del governo olandese per non aver rispettato le regole, e il secondo costretto a dare le dimissioni per lo stesso motivo (Sugihara vendette lampadine da porta a porta per guadagnarsi da vivere). Il nome di Sugihara apparve nel Giardino dei Giusti a Yad Vashem nel 1985, quello di Zwartendijk dovette aspettare il 1998, dopo che il figlio fece ricorso.
Tanti passaporti in cerchio in questo monumento a Zwarrtendijk a Kaunas
    Quello che è più triste, nella storia di questi Giusti, è che quattro di loro morirono senza sapere che ne fosse stato delle persone per cui avevano rischiato la vita e la carriera. Per Zwartendijk- lo dicono i figli- l’interrogativo fu un rovello e un dolore costante. Quello che importava era aver agito secondo coscienza, e tuttavia, non era solo per curiosità, piuttosto per sapere se tutto avesse avuto un senso o fosse stato inutile.
    Un libro splendido, assolutamente da leggere. Per rendere onore a dei grandi uomini con il nostro ricordo, per trarne consolazione e speranza- finché esistono persone capaci di obbedire ad un ordine etico interiore senza curarsi dei rischi per se stessi, possiamo avere ancora fiducia nell’umanità.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it





     

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