Casa Nostra. Qui Italia
seconda guerra mondiale
riletture
Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”
Ed. Gedi, pagg. 471
Sono cresciuta sentendo parlare della
ritirata di Russia. Un amico dei miei genitori non era ritornato. Ho letto su
internet che più di 500 giovani della provincia del mio paese di mare sono
morti o sono stati dati per dispersi nella tragica operazione Barbarossa.
Quando vado nel mio cimitero marino passo davanti ad una lapide che ogni volta
mi strazia il cuore. C’è la foto di un ragazzo- le date dicono che ha vent’anni
appena compiuti. L’aspetto è quello di un tempo passato, quando si diventava
maggiorenni a 21 anni e però si poteva essere mandati a morire a diciotto.
Sembra più grande. In realtà sembra senza età. Una frase incisa in lettere di
bronzo, un grido accorato, “Figlio mio, dove sei?”, e poi, ‘disperso in Russia,
gennaio 1943.’ Mi fermo, penso a quel ragazzo che non ha ancora vissuto e al
suo sgomento nel biancore sterminato. Penso alla colonna di alpini che si snoda
nella pianura innevata, come la abbiamo vista nelle fotografie che lasciano
capire la lentezza del passo e la sofferenza inaudita. Sarà stato tra quelli
che ad un certo punto non sono più riusciti ad avanzare, il ragazzo della foto?
O sarà stato tra quelli stritolati dai carri armati russi nella zona di
Popowka? “Figlio mio, dove sei?”.
Quando ho visto che un’iniziativa di Repubblica ristampava e vendeva in
edicola “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi, l’ho comprato,
anche se lo avevo già letto, anche se avevo già il libro in casa, chissà dove,
però. E l’ho subito riletto.
Le riletture sono sempre a sorpresa-
un libro può deludere a distanza di anni, oppure, al contrario, può piacere di
più. Ho divorato- di nuovo- “Centomila gavette di ghiaccio”. Forse l’ho anche
capito meglio, forse avevo più strumenti per leggere dietro le parole sobrie di
Bedeschi che affida il suo racconto, i suoi ricordi, ad una narrativa in terza
persona con un personaggio principale, il tenente medico ventiseienne Italo Serri.
Non è lui, però, il protagonista del libro, sono tutti gli alpini della
divisione Julia in un grandioso romanzo corale storico che inizia con la campagna
di Albania. Già era sembrata dura, la campagna di Albania. Già il freddo era
parso insopportabile. Eppure era niente in confronto a quello che avrebbero
sperimentato in Russia. La ritirata dei nostri alpini dal fronte del Don è
descritta da Bedeschi in maniera accurata sia storicamente sia- e qui è il
valore intramontabile del libro- umanamente. Mai, neppure nelle circostanze più
dure delle temperature che scendono a 48 sotto zero, della mancanza di cibo,
delle ferite spaventose, mai viene meno lo spirito di corpo, la solidarietà,
l’affetto che lega gli uomini della divisione, che dà loro la forza di mettere
un piede davanti all’altro. Alcuni personaggi, alcuni episodi, sono
indimenticabili. Come quando l’umile guidatore di muli che ha le mani congelate
e inservibili cede il pezzo di formaggio che si era portato in tasca per un
mese ad un compagno che altrimenti si lascerebbe cadere nella neve. E ci
scherza su, minimizzando. Lui che aveva minacciato di uccidere chi avesse
cercato di rubarglielo.
Non c’è molto da aggiungere su di un libro pubblicato nel 1963 e su cui
si è già detto tutto. Neppure la domanda, ‘come è stato possibile mandare
questi giovani allo sbaraglio, ad una morte certa?’, è una novità. Continuo a pensare
ai numeri, 1300 chilometri nella neve a più di 40 gradi sotto zero in 40
giorni. E vale la pena di rileggere il libro, di continuare a parlarne, perché
fra un poco la storia degli alpini in Russia sembrerà una Storia lontana, tanto
lontana quanto quella della ritirata di Napoleone.
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