vento del Nord
Auður Ava Ólafsdóttir, “Hotel Silence”
Ed. Einaudi, trad. S. Rosatti,
pagg. 188, Euro 15,72
Per una strana coincidenza ho letto,
uno dopo l’altro, due libri di scrittori che vivono alle due estremità opposte
del mondo, o quasi. In Islanda e in Giappone. Ed entrambi i libri sono due
favole, o due parabole che contengono un messaggio positivo di forza vitale, di
incoraggiamento ad andare avanti nella vita, qualunque siano le avversità. Il
protagonista del romanzo di Auður
Ava Ólafsdóttir, “Hotel Silence”, è Jónas, quarantanove anni, divorziato da sei
mesi. La moglie, prima di lasciarlo, gli ha detto che la figlia- che Jónas
adora- non è sua. A Jónas è crollato addosso il mondo. Se aggiungiamo che sua
madre, in un ricovero per anziani, non ci sta più tanto con la testa- il quadro
è completo. La vita gli sembra senza scopo, senza futuro. Jónas pensa di
uccidersi, si fa imprestare il fucile da caccia dal suo vicino di casa. Peccato
che Jónas non abbia mai sparato un colpo in vita sua. Pensa di impiccarsi. Ma
non vuole che, come sarebbe probabile, sia Vatnalilja a trovarlo. Vatnalilja
che significa ninfea. Jónas si è fatto tatuare una ninfea bianca sul petto.
Soluzione: partire, andare a morire altrove. Senza bagaglio, soltanto con la
cassetta degli attrezzi, perché non riesce a lasciarla a casa, lui che aveva
imparato a fare ogni genere di piccola riparazione per le sue tre donne e che
ora non è capace di riparare la sua vita. Con i quaderni dei suoi diari, perché
non vuole che qualcuno li legga, se li gettasse nei rifiuti. Parte per uno dei
paesi che riempiono le pagine dei giornali con notizie di guerra, dove la morte
è una banalità quotidiana.
Succede quello che possiamo aspettarci, proprio perché la morte non
stupisce più nessuno nel paese dove atterra l’aereo di Jónas, dove tutti
pensano che lui sia andato sotto copertura, per qualche missione speciale, dove
l’hotel Silence è miracolosamente rimasto in piedi, gestito da fratello e
sorella. Ci sono altri due ospiti arrivati inaspettatamente insieme a Jónas: è
segno che la vita sta riprendendo? C’è anche un bambino nell’albergo, è il
figlio di Maì, la ragazza. Non ha conosciuto altro che spari e bombardamenti,
aveva smesso di parlare. Succede che, dopo che Jónas ha rimesso in funzione la
doccia della sua stanza pulendo i tubi dalla sabbia, iniziano a chiedergli di
fare piccole riparazioni. Passa un giorno dopo l’altro e Jónas non si è ucciso.
Non voglio raccontarvi tutto il libro la cui trama è prevedibile, così
come è chiaro il messaggio: scegliere la morte laddove l’odore della morte
impesta l’aria, dove la morte non è una scelta, è un obbrobrio, un sacrilegio.
Eppure la qualità della prosa di Auður Ava Ólafsdóttir, pulita, con qualcosa di musicale e
poetico, ci conquista e leggiamo, pur sapendo che non avremo sorprese nel
finale. Se eravamo pronti a cogliere qualche dissonanza nella voce di un
personaggio maschile tratteggiato da una penna femminile, dobbiamo ricrederci.
E ci piacciono le piccole descrizioni delle sorprese che aspettano un islandese
in un paese malato di guerra che certamente si affaccia sul Mediterraneo. Ci
piace la descrizione dei piatti cucinati con inventiva da chi non niente da
cucinare. Ci piace il rapporto padre-figlia che non cambia affatto dopo la
sconvolgente rivelazione della ex moglie di Jónas- anche Vatnalilja era stata
messa al corrente dalla madre e non le importava affatto. A questo Jónas
dovrebbe pensare prima di tutto, tirando le somme della sua vita: è stato ed è
un buon padre. E apprezziamo che Auður Ava Ólafsdóttir eviti facili pennellate rosa di storie
d’amore che salvano dalla depressione.
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