Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
Diaspora ebraica
la Storia nel romanzo
Nathan Englander, “Il ministero dei casi speciali”
Ed. Mondadori, trad. Silvia
Pareschi, pagg. 389, Euro 18,00
Buenos Aires 1976. Il lavoro di
Kaddish Poznan è quello di cancellare, su commissione dei discendenti, il nome
dalle lapidi del cimitero ebraico in cui sono sepolti prostitute e ruffiane. Lui
stesso è, letteralmente, un figlio di puttana, sua moglie fa l’assicuratrice,
il figlio Pato è studente. Quando la junta militare prende il potere, Pato
viene arrestato e scompare. Inizia il pellegrinaggio dei genitori nelle
stazioni di polizia, poi al Ministero dei Casi Speciali: di lui non resta
traccia. In una famiglia il dramma di un intero paese.
INTERVISTA A NATHAN ENGLANDER, autore de “Il ministero dei casi
speciali”
Se non ci fosse l’elemento del grottesco,
se non ci fossero il paradosso e l’ironia che capovolge il senso di quanto è
scritto, la lettura del romanzo “Il ministero dei casi speciali” di Nathan
Englander risulterebbe troppo dolorosa, con una storia ambientata durante la
dittatura militare in Argentina, sotto un governo le cui vittime avrebbero
avuto il triste privilegio di essere ricordate come “desaparecidos”- non morti,
ma scomparsi senza lasciare traccia, come non fossero mai esistiti. Ironico il
nome del protagonista, Kaddish, come la preghiera ebraica per un defunto.
Quando il rabbino gli aveva dato questo nome, l’augurio era stato che potesse
essere colui che piange piuttosto che colui che viene pianto: non sapeva che
sarebbe stata una sorta di profezia, che Kaddish avrebbe pianto la perdita di
un figlio per cui non avrebbe potuto pronunciare il kaddish, in assenza di un
corpo. E per cognome gli aveva dato Poznan, come la città che aveva insegnato
che il figlio di una prostituta va a finire male. Perché Kaddish è un figlio di
puttana- chi altro accetterebbe di profanare delle tombe, cancellando per soldi
dei nomi dalle lapidi? Anche quelli che gli commissionano di farlo sono dei
figli di puttana, arricchiti però, e che, visto i tempi che corrono, vogliono
far scomparire il loro passato. Uno di questi, un chirurgo plastico, offre a
Kaddish, a mo’ di pagamento, un intervento per modificare il suo naso e quello
della moglie, ed è a questo punto che il grottesco si aggiunge all’ironia,
caricando di metafore il significato della vicenda. Non c’è un naso che gira
per la città, come in Gogol, ma un intervento riuscito bene e uno (quello sulla
moglie di Kaddish) tremendamente male che trasforma la povera Lillian in
pagliaccio, con il naso che si stacca per il gran piangere dopo la scomparsa di
Pato. Alla seconda operazione Lillian diventa bellissima eppure si dispera: il
suo vecchio naso era uguale a quello del figlio, adesso non può neppure più
vedere suo figlio nel riflesso che lo specchio le rimanda di lei stessa, ed è
come se lei avesse ucciso suo figlio. E se il lavoro di Kaddish è, su piccola
scala, lo stesso di quello di un governo che distrugge certificati di nascita e
documenti di ogni tipo attestanti l’esistenza di una persona, l’alterazione di
tratti somatici squisitamente familiari è preludio a quella grossa bugia dei
bambini rubati, i figli dei desaparecidos sottratti ai loro genitori.
Quando poi Kaddish e Lillian iniziano a
girare per le 52 stazioni di polizia e i sette ministeri per arrivare al
Ministero dei Casi Speciali, la narrazione assume una sfumatura kafkiana tinta
da reminiscenze orwelliane nelle attese senza fine, la ricerca dell’ufficio
giusto, gli intralci assurdi della burocrazia, la scoperta- infine- che si può
continuare a bussare a quelle porte per anni senza mai avere una risposta
chiara. E, dopo il naso, dopo la bocca che parla per dire menzogne, è la volta
degli occhi e degli orecchi a colmarsi di significato: “Apra gli occhi e guardi
in alto”, dice il rabbino a Lillian. “Non sono angeli, quelli che vedrà. Sono
corpi che piovono giù dal cielo.” Lillian non può capire, ma con Kaddish un
pilota ubriacone è più esplicito: “Vorrei essere cieco. Sono io il mostro che
li butto in mare. Ne ho uccisi tanti. Potrei avere ucciso anche suo figlio”. E
vorrebbe anche essere sordo, per non sentire più il tonfo dei corpi che cadono
in acqua.
Non può che avere un finale
paradossale, ironico e grottesco insieme, la storia dell’uomo destinato a
piangere la morte di qualcuno fin da quando è nato. Quando Lillian paragona
Plaza de Mayo ad un’arena romana, dove il governo ha occupato tutti i posti
mentre il resto del paese è rimasto giù insieme ai leoni, ci viene da pensare
che, se puntassimo il dito su un mappamondo che gira, ci sarebbe una Plaza de
Mayo ovunque questo si fermasse. Stilos ha intervistato Nathan Englander, che è
nato nel 1970 a
Long Island, è cresciuto a New York, ha vissuto a lungo a Gerusalemme ed ora è
tornato in America.
Lei è nato nel 1970 e quindi non può ricordare gli anni della dittatura
argentina. Quando si è destato il suo interesse per quegli avvenimenti?
La risposta più semplice
da dare è che questo è un libro sulla verità: ho cercato di impostare la mia
narrativa sulla verità. Ho cercato le risposte alle mie domande viaggiando e,
quando ho incontrato, nel 1989
a Gerusalemme, delle persone che sono poi diventate mie
amiche, mi sono reso conto di quanto io fossi diverso: avevo incontrato delle
persone i cui giorni, nella gioventù, erano stati formati dalla politica. Per
me, giovane e americano, la politica era una cosa lontana. Questo è un libro di
interazioni; un libro non viene mai da un’unica idea ma da un numero infinito
di luoghi- magari allora non me ne sono reso conto, ma adesso sì. Questo libro
può essere considerato una metafora di Gerusalemme- sono un grande amante delle
città che vanno in pezzi. Nel 2000 ero a Mantova con Amos Oz e David Grossman,
eravamo felici perché sembrava la pace fosse vicina, e invece poi è iniziata la
seconda Intifada. Questo è un libro sui sentimenti che si provano in seno ad
una comunità, è anche una metafora di Gerusalemme ed è nato dalle storie dei
miei amici argentini che mi hanno raccontato che cosa è successo e delle loro
esperienze.
Il suo libro precedente è del 2000, perché ci è voluto così tanto tempo
per scrivere questo secondo libro?
Sarei un vigliacco se
mentissi e dicessi che la vicenda mi ha catturato e trascinato via. No, è stato
un lavoro pensato a lungo. Nella mia vita la cosa più importante è scrivere,
sono uno che lavora giorno e notte, sette giorni alla settimana, che si dedica
interamente alla scrittura. Per me questo libro ha voluto dire riuscire a fare
quello che sembrava impossibile, riuscire ad arrivare dove non avrei mai
pensato di arrivare. E’ vero che ho chiuso gli occhi e ho visto il finale
all’inizio del lavoro, però quando si è trattato di scegliere, di correggere,
di capire, di costruire la figura di quest’uomo che lavora nel cimitero, è
stato un impegno che ha richiesto dieci anni della mia vita. E tuttavia sarei
pronto a dedicarci altri dieci anni se fosse necessario. Forse questo è il tipo
di lavoro che fai una volta sola nella vita. Mi sento come se fossi uscito
dalla boscaglia dopo esservi stato nascosto per dieci anni, ma c’era bisogno di
questo, doveva passare tutto questo tempo per riuscire a scrivere questo libro.
Il romanzo incomincia con i due cimiteri: l’idea dei cimiteri separati
da un muro sembra talmente paradossale da non poter essere vera. E’ vera?
La storia dei cimiteri
è vera. Quando stavo scrivendo il libro, di proposito non sono voluto tornare
in Argentina, dove ero stato nel ‘91, per fare ricerche, ma c’erano al tempo
case di prostituzione e protettori, niente di glorioso, vite miserabili-
c’erano, insomma, queste donne ebree che hanno esercitato la professione e la
comunità le ha obbligate a farsi un cimitero a sé stante. La classe media
emergente dell’Argentina ha avuto un sussulto di vergogna per le sue origini e
ha deciso di emarginare le prostitute e i ruffiani. Questa storia mi aveva
molto colpito: si può infliggere una punizione ad una persona ma è tremendo
infliggere una punizione eterna. Emarginare qualcuno per l’eternità è
terribile. A marzo di quest’anno sono andato a Buenos Aires e ho visto il
cimitero: assomiglia moltissimo a quello che io ho descritto nel libro.
Lapidi che vengono alterate, nasi che vengono cambiati: come si
allacciano questi due temi? C’è molto humour ebraico nella maniera in cui
tratta il topos del naso…
Dal punto di vista
narrativo ho cercato di spiegare che le storie non sono mai univoche, che il
governo può raccontarti la sua storia e la stessa cosa la può fare la famiglia
o la religione. Tutti ti raccontano la loro storia e queste storie vengono
modificate, emendate, secondo come è meglio che vengano raccontate. Questo tema
allora si allaccia a quello della chirurgia plastica: se cambi faccia, cambia
anche la tua storia. Parlare della vicenda di Kaddish e Lillian che si fanno
operare al naso era anche un’occasione per prendermi una pausa dalla vicenda
principale, dal dramma del figlio scomparso. Ho preso a prestito la frase di
Borges, “se perdi la tua faccia, è come un assassinio”. Mi serviva proprio per
fare dell’umorismo sul topos del nome.
Il personaggio principale del libro è il simpatico e coraggioso Kaddish
Poznan e tuttavia il ragazzo scomparso, Pato, è più vicino a Lei per età: quali
sono stati i suoi sentimenti verso questi due personaggi, uno più anziano e uno
più giovane?
E’ inevitabile che io mi
senta inestricabilmente legato a questi due personaggi e non avverto alcuna
distanza né da quello più vecchio né da quello più giovane. Romanticamente uno
potrebbe pensare che ti siedi lì e butti giù la bozza intera del libro. Non è
così: ho cercato di concentrarmi sulla realtà, sul realismo che un autore deve
avere in testa quando parla di un rapporto di questo genere. Sono riuscito ad
avere distanza zero: so dove mi trovo io nello spazio e nel tempo e so dove si
trovano i miei personaggi; quale sia poi il collegamento tra il mio spazio e
quello del libro non ha nulla a che fare con me. Pensavo che questo fosse un
libro sulla “guerra sporca”, sull’habeas
corpus, sulla comunità ebraica, ma
poi mi sono reso conto che è un libro sul rapporto padre e figlio. Le ultime
righe del primo capitolo sono lo sforzo di Pato per dire a suo padre che lo
ama, ma non lo dice direttamente, non riesce a riconoscere il suo amore per
lui: forse rappresenta il dolore che anche io ho dentro di me. Non importa se
l’abbia pensato o no, questo è un libro su tanti argomenti e poi essenzialmente
è un romanzo su un padre e un figlio e una madre, su loro tre più che ogni
altra cosa.
Ecco, un libro su un padre e una madre che perdono un figlio: c’è un
tocco di comprensione straordinaria della natura umana nella maniera in cui
descrive le due diverse reazioni alla perdita del figlio, la madre che deve
continuare ad aspettarlo se vuole mantenerlo in vita e il padre che deve dargli
una sepoltura per non continuare ad
aspettarlo. Rappresentano donna e uomo, madre e padre davanti alla morte?
Non sono sposato e non
ho figli, ho cercato di pensare che cosa volesse dire essere Kaddish ed essere
Lillian: penso a loro come uno scrittore. In un senso più ampio, ho cercato di
pensare alla fisicità dei due personaggi, la mia è un’esplorazione letteraria
di quello che possono avere provato. E’ uno degli aspetti del libro: questa è
la realtà, qualcosa accade nel mondo di Kaddish e qualcosa accade nel mondo di
Lillian. Volevo vedere che cosa succede quando ci sono due opposte realtà nello
stesso mondo, se due realtà possono sopravvivere sotto lo stesso tetto. Volevo
trattarli entrambi con grande empatia e farli esistere insieme.
Alcuni personaggi secondari sono molto importanti, ad esempio il
rabbino e il prete. Quest’ultimo è disprezzabile e il primo non è molto meglio:
sono le istituzioni religiose e l’incapacità che qualunque Chiesa ha sempre
mostrato di fermare dei regimi assassini?
Io scrivo romanzi e mi
piace costruire un mondo fittizio: il rabbino è il rabbino e il prete è il
prete. Riconosco che poche persone hanno un nome nel romanzo- capisco che,
essendo il rabbino e il prete, rappresentano qualcosa. E’
documentato che ci sono state veramente persone così, preti che hanno cercato
di estorcere soldi ai genitori. Non denuncio la Chiesa , non mi sento abbastanza
sicuro per fare queste cose, ma nel costruire questo mondo, scrivendo il
romanzo, punto il dito contro il comportamento della comunità o della Chiesa.
Trovo difficile rispondere a questa domanda al di fuori del romanzo. So di fare
affermazioni gravi nel romanzo, sulla società che gira le spalle, sul prete,
sul rabbino, so di porre molte domande, ma mi è difficile fare grosse
affermazioni al di fuori dello spazio del romanzo. E poi ogni lettore porta del
suo in un libro: quando mi fanno osservare quello che vi hanno letto, riconosco
che è vero, che è una lettura giusta.
Il libro lavora sul tema della dimenticanza, del cancellare il passato,
sia quello individuale sia quello collettivo, del riscrivere il passato per
adattarlo come ci fa comodo. Non è qualcosa che fanno tutte le nazioni? Non è
quello che ha fatto Israele riguardo a quella che i Palestinesi chiamano la Naqba , oppure gli Stati
Uniti quando hanno portato la guerra in Afghanistan, o in Europa quando
improvvisamente nessuno aveva mai simpatizzato con i nazisti?
E’ proprio quello che mi
ha interessato: ogni nazione si comporta così, ogni nazione si spacca in due
nel come raccontare la storia. Quello che mi ha impressionato in Israele è che,
poiché la sua esistenza è così precaria, vive più velocemente, tratta anche la
sua narrativa in maniera più svelta. Per questo in Israele si è giunti a
riconsiderare il passato in tempi più brevi: in America si chiede adesso
perdono per la schiavitù, dopo 150 anni! E’ proprio il fatto che Israele abbia riguardato
la sua storia passata che mi ha fatto pensare: queste cose vengono usate in
ogni paese per nutrire il nazionalismo. Ho cercato di guardare ciò ad ogni
livello, si scende alla storia personale, poi a quella della famiglia e a quella
della comunità. Ho situato la storia in Argentina perché è un paese che sta
creando la realtà nella sua forma più estrema. L’Argentina, facendo scomparire
le persone, ha messo le mani nel passato e nel futuro. Uccidere qualcuno
significa toglierlo dal presente e negargli un futuro. Ma far scomparire
qualcuno significa che lo fai scomparire anche dal passato: è l’estremo di
questo. Lo stesso processo avviene quando alteri una storia: da tutte le
alterazioni delle storie viene il caos- lo vediamo nella politica più recente
americana. E’ di questo che parla il libro: di come vengono alterate le storie
e dei problemi che ne conseguono.
Come ha lavorato sulla lingua di questo romanzo?
In genere ad uno
scrittore non piace parlare del lavoro di “artigianato”, a me sì. Sono convinto
che il romanzo sia la forma di arte suprema, l’unica che è costruita
interamente nella testa. Mi ci sono voluti anni per trovare il registro giusto.
Ho scritto in inglese, ma sono certo che, in alcune sue pieghe, suoni
abbastanza ebraico o spagnolo, quindi questa costruzione ho dovuto farmela in
testa, ho dovuto adattare la lingua alla situazione descrivendo personaggi che
vivevano in un certo contesto e in un certo momento… il romanzo è davvero la
forma suprema di espressione e la lingua è un simbolo. Lo scrittore ha una
responsabilità eccezionale nel creare un mondo con il suo linguaggio e questo
mio amore per la parola mi fa lavorare tantissimo, per cercare di estrapolare
un universo che sia comprensibile partendo da uno spazio negativo. Trovare la
voce giusta per descrivere questo universo mi ha impegnato veramente tanto.
Questo è un libro iperrealistico: non è un sogno, non ho inventato nulla. Mi è
stata rivolta l’accusa di aver favoleggiato: non è vero, è tutto reale anche se
la realtà è spesso incredibile.
Il suo libro precedente era una raccolta di racconti: le è piaciuto
cambiare genere, la possibilità di vivere a lungo con i suoi personaggi?
Moltissimo, ho goduto
moltissimo a scrivere questo libro. Mi piace scrivere racconti, ma l’idea di
esplorare qualcosa nello spazio di un romanzo era eccitante. Era qualcosa che
volevo fare. Per me si trattava non solo di scrivere un romanzo, ma di imparare
che cosa è un romanzo: è stata una sfida difficile e incredibilmente
affascinante. Userei la parola “artigianato” per il mio lavoro: questo è quello
che mi interessa nella vita, so quello che devo fare, so quello che una storia
richiede da me. Per me è stata un’esplorazione meravigliosa restare a lungo con
i personaggi.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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